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 Un angolo di cielo 2 poesie nel mondo
 PALESTINA.
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janet
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Posted - 13 September 2003 :  19:57:08  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando


Dirottata dal destino



"Da quando lasciammo Haifa, mia madre non tocco' piu' un'arancia. Ed anch'io, da allora - avevo 4 anni - ho giurato di mangiare arance solo quando tornero' a casa, in Palestina"




Confessioni raccolte a Londra

La combattente palestinese Leila Khaled siede discretamente nel retro di una antica farmacia palestinese di Edgware Road, a Londra. Nei giorni della gioventu', dirottava aerei. Le sue immagini degli anni '70, quelle di una rivoluzionaria con kufiya palestinese e kalashnikov, sono diventate un'icona come quelle di Che Guevara.

Nel 1969, a 25 anni, armata di pistola e granate, divenne la prima donna in assoluto ad aver dirottato a Damasco un volo della TWA. Qui riusci' a scappare, dopo aver trattato il rilascio degli ostaggi con la liberazione di prigionieri politici palestinesi ed aver fatto esplodere l'aereo a terra.

Leila si sottopose ad un'operazione di chirurgia plastica e ripete' l'operazione un anno dopo, quando fu coinvolta in una serie coordinata di dirottamenti aerei, culminata nell'esplosione simultanea di tre aerei in Giordania e di uno in Egitto.
Il tentativo di dirottare un volo della El Al ad Amsterdam fu catastrofico. Quando lei ed il suo complice, il nicaraguense Patrick Arguello, cercarono di prendere d'assalto la cabina di pilotaggio, il pilota tiro' l'accelleratore e mando' l'aereo in picchiata.
Arguello fu ucciso a mezz'aria da agenti di sicurezza in borghese, mentre Leila riusci' ad uscirne quasi incolume. Dopo aver trascorso 28 giorni nella prigione di Ealing, fu liberata in seguito ad una trattativa tra il primo ministro britannico Edward Heath ed il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser.

Posate le armi dopo la nascita del suo primo figlio, nel 1981, Leila ha continuato la sua battaglia all'interno del movimento politico marxista del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Dopo una vita di lotta, oggi, a 58 anni, i suoi discorsi sono ancora incendiari.

Leila rigetta categoricamente l'accusa di "terrorismo" , affermando che i suoi dirottamenti furono operazioni di successo volte ad attrarre l'attenzione mondiale verso le sofferenze dei palestinesi.
"C'e' una differenza tra terrorismo e lotta armata. La prima volta che partecipai ad un'operazione, mi definirono "terrorista". Ero giovane, in quel tempo, e non capivo. Nel 1948 urlavamo in agonia, ma nessuno udiva le nostre sofferenze. Nessuno defini' "terroriste" le bande sioniste. Oggi, i combattenti per la liberta' sono definiti terroristi, ed i terroristi vengono considerati uomini di pace. I capitalisti sono sempre riusciti a costruire gli strumenti necessari affinche' il pubblico creda alle loro bugie. Questa e' la globalizzazione, una nuova invenzione".

Leila racconta la storia di una studentessa dell'Universita' di St.Andrews, in Scozia, che la contatto' per un'intervista.
"Mi chiese se poteva venire in Giordania ed incontrarmi per un progetto di ricerca. Fui stupita di sentire che quel college aveva appena aperto un dipartimento per gli studi sul terrorismo. Le dissi: "Ha avuto l'indirizzo sbagliato. Ma vorrei aiutarla, dunque le daro' gli indirizzi di Sharon, Netanyahu e Bush. Lei rise, e poi discutemmo su come cambiare la sua tesi ponendo una differenziazione netta tra terrorismo e legittima lotta di resistenza. La legge internazionale conferisce ai palestinesi il diritto di utilizzare ogni mezzo per la loro liberazione nazionale, inclusa la lotta armata". Il suo umorismo e' surreale: "Mi chiedo quante facolta', in occidente, abbiano aperto lo stesso dipartimento. Probabilmente mi ci iscrivero'. Le nuove generazioni hanno tanta di quella tecnologia, a disposizione. Io, invece, ho confidenza solo con i telefoni - e con gli aeroplani".

Leila non nutre alcuna fiducia nelle visioni americane circa un possibile stato palestinese: "Bush ha detto che sara' la sua visione a creare uno stato palestinese, ma noi conosciamo questa visione da 54 anni, ed essa ci ha portato solo lutti. Israele rifiuta di obbedire alle risoluzioni ONU e questo viene accettato". Quindi rivolge a loro le accuse di terrorismo: "Pensate che crederemo a questi macellai? Gli elicotteri Apache e gli F-16 israeliani sono made in USA. Bush ha definito Sharon "un uomo di pace". Questa e' una barzelletta macabra. Sono questi i veri nemici del popolo palestinese".

Poi denuncia con forza i nuovi precedenti nella legge internazionale - "assassinii mirati extra-giudiziari", "deportazione punitiva o forzata" e detenzione "amministrativa" senza nessuna accusa - introdotti da Israele e Stati Uniti.
"Il governo israeliano vuole l'espulsione del popolo palestinese dalla sua terra ancestrale occupata", afferma Leila. "Il Likud vuole uno stato palestinese ... in Giordania. Hanno legalizzato la deportazione forzata. L'ex-ministro Rehavam Zevi aveva queste idee, e le ha trasmesse a tanti altri, come ad esempio Avigdor Lieberman, un estremista giunto dall'America ad occupare la nostra terra, il quale chiede apertamente il "trasfer" della popolazione palestinese".

A quattro anni, nel 1948, Leila fu costretta a lasciare la sua citta' natale, Haifa, assieme alla sua famiglia. Anni dopo, sua sorella fu assassinata dal servizio segreto israeliano, il Mossad, che la scambio' con Leila. Il gruppo a cui apparteneva promise vendetta pari per l'assassinio della giovane.
"Noi siamo contro la violenza e l'assassinio, ma quando e' il momento di agire, dobbiamo farlo perche' veniamo assassinati costantemente da 54 anni. Vi aspettate che diciamo: OK, lo accettiamo? Essi hanno occupato il nostro paese con la violenza, ci hanno scacciati con la violenza e con la violenza hanno stabilito il loro stato. Fino a che ci sara' occupazione, ci sara' resistenza. Israele ha violato tutte le leggi internazionali e finche' gente come Sharon, Netanyahu e la loro cricca di criminali di guerra controlleranno Tel Aviv, la lotta si intensifichera'. La storia sanguinaria di Sharon e' ben nota. Anche il suo futuro sara' sanguinoso. I palestinesi sanno come trattare questi massacratori".

Parlando del passato, Leila afferma di considerare Patrick, il suo compagno assassinato su un aereo della El Al "un buon amico, un idealista. Ha combattuto ed e' morto per una causa giusta, e lo ricordo come un martire internazionale per la liberta'. Noi abbiamo dirottato degli aerei perche' il mondo era sordo quando noi urlavamo sotto le nostre tende da profughi, e perche' nessuno ascoltava le nostre sofferenze. Fino all'inizio della rivoluzione del 1967, i palestinesi erano considerati come un popolo bisognoso di aiuti umanitari, non come popolo con una causa. C'era bisogno che la gente sapesse, che la loro attenzione venisse catturata. Dopo i dirottamenti, essi cominciarono a chiedersi: chi sono i palestinesi? Perche' fanno questo? Perche' una donna fa questo? Qual'e' il torto che hanno subito? Essi, dunque, hanno raggiunto l'obiettivo, hanno "funzionato" ".

"Allo stesso modo, oggi, di fronte ad un kamikaze che sceglie di farsi esplodere tra i suoi nemici, dovremmo chiederci: perche'? Noi stiamo lottando per vivere in pace nella nostra terra. Una povera donna che ricama i suoi abiti, e' parte della nostra lotta. Una giovane che cresce suo figlio affinche' questo conosca ed ami la Palestina, e' parte della nostra lotta. Un uomo che soffre ai checkpoints, e' parte della nostra lotta, cosi' come un medico che cerchi di curare i feriti.
Questo e' un massacro graduale e silenzioso. Essi uccidono, uccidono e uccidono ancora, arrestano la gente, distruggono le loro case, sequestrano le terre, sradicano gli alberi d'olivo, assediano i luoghi sacri. Le donne incinte sono costrette a partorire ai checkpoints perche' viene loro rifiutato l'accesso agli ospedali. Ai bambini viene impedito di frequentare le scuole, sono interrogati, picchiati e torturati. Israele ha reso la vita dei palestinesi cosi' miserabile che la distanza tra la vita e la morte per noi e' minima. Finche' continuera' tutto cio', anche i kamikaze aumenteranno".

Leila rifiuta con sdegno l'accusa secondo cui le sue operazioni abbiano potuto ispirare azioni come quella dell'11 settembre, trent'anni dopo.
"Quello e' stato un atto di terrorismo senza alcuna finalita' umanitaria", dice. "La nostra, invece, era una forma di lotta. Noi dicevamo il perche' delle operazioni, le rivendicavamo, affinche' la gente sapesse. Quelli di New York non avevano alcuna causa. Inoltre noi non abbiamo mai ucciso nessuno. Al contrario, due del nostro gruppo furono assassinati durante un dirottamento. Uno di essi fu assassinato dai servizi segreti israeliani mentre si trovava in custodia presso la polizia britannica".

Dopo oltre 50 anni di lotta, il suo popolo ha poco da mostrare della sua sofferenza.
"Dov'e' la nostra sicurezza?", chiede Leila. "Ho 58 anni e dal 1944, l'anno in cui sono nata, non mi sono mai sentita sicura. Il mio compleanno cade nell'anniverario del massacro di Deir Yassin, del 1948, ecco perche' non ho mai potuto festeggiare. Ogni mese, tuttavia, ci sono ricorrenze tristi che ci ricordano la crudelta' di questa occupazione sanguinosa".

Leila Khaled vede poche prospettive di vita migliore anche per i suoi figli. "Sono madre di due ragazzi, ed essi hanno il diritto di sognare, ma quale speranza hanno? Sono minacciati perche' palestinesi. Mio figlio non ha il diritto di vivere, ne' di continuare i suoi studi. Vorrei tanto che riuscissero ad ottenere un titolo universitario.
Credete che mio figlio accetti tutto cio'? Vi aspettate che i nostri figli parlino di giardini, fiori e sole, mentre tutto cio' che vedono sono elicotteri Apache ed F-16? Io chiedo a Bush e Blair: come chiamate voi i tanks ed i bulldozers, come dite massacro nella vostra lingua? Volete davvero che noi rispondiamo a tutti questi crimini con rose, o seppellendo le nostre teste?

Noi non glorifichiamo la morte: noi siamo le vittime di coloro che ci impediscono di vivere. Noi non chiediamo miracoli, ne' combattiamo per la morte. Noi lottiamo per la nostra dignita', vogliamo vivere".






janet


Un cuore non può bastare per due.
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janet
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Posted - 13 September 2003 :  20:27:51  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando

LA NOSTRA SCONFITTA SI DECIDE IN TV


Edward Said*




Tutti coloro che sono coinvolti con la Palestina, vivono oggi in uno stato di shock e rabbia. L'aggressione colonialista israeliana a tutto campo (unita allo spaventoso e stupido sostegno di Bush) contro il popolo palestinese sovrasta in ferocia tutti gli assalti condotti in precedenza da Ariel Sharon, dal 1971 al 1982. Il clima politico e morale, oggi, e' profondamente decaduto e disumanizzato. I media hanno giocato un ruolo ancora piu' distruttivo proponendo la visione israeliana dei fatti, ossia focalizzando l'attenzione del lettore sugli attacchi kamikaze decontestualizzandoli, non accennando mai all'occupazione brutale ed illegale che i palestinesi subiscono da 35 anni.


L'attualita' mondiale e' oggi tutta occupata dalla "guerra al terrorismo" e da una egemonia statunitense senza precedenti, mentre la debolezza e la frammentazione degli stati arabi non e' stata mai cosi' evidente. Tutti questi elementi messi insieme hanno scatenato gli istinti sanguinari di Ariel Sharon. Cio' significa che egli oggi e' in grado di infliggere distruzioni sempre maggiori senza alcun deterrente. Allo stesso tempo Sharon resta quello che e' stato per tutta la vita, governata da odio cieco e stratificato, sentimento che si accompagna sempre a fallimento politico ed anche militare.


Nei conflitti tra i popoli vi sono elementi che non possono essere eliminati da carriarmati ed elicotteri da guerra. E, nonostante Sharon continui a strombazzare i suoi cinici e stupidi proclami di "guerra contro il terrorismo", la guerra ai civili disarmati non portera' mai a quei risultati politici che lui sogna di ottenere: i palestinesi non lasceranno la loro terra.

Noi crediamo che alla fine riuscira' solo ad ottenere il ripudio da parte della sua stessa gente. Il suo solo piano e' distruggere tutto cio' che sia collegato alla Palestina ed ai palestinesi. Nella sua ossessione contro Yasser Arafat non ha ottenuto che un rafforzamento di Arafat stesso ed una prova ancora piu' chiara della sua follia. E' questa follia e' un problema che riguarda Israele. Per quanto ci riguarda, dobbiamo solo continuare il nostro sforzo morale di proseguire nella marcia verso la liberazione nonostante le sofferenze e le distruzioni inflitteci da questa guerra criminale.

Quando un ex-politico del calibro di Zbigniew Brzezinski dice alla televisione che Israele e' simile al regime di apartheid del Sudafrica, possiamo essere certi che non rivela il suo personale punto di vista, perche' un numero sempre crescente di americani comincia a provare disgusto verso Israele e la sua politica, capisce che questo costosissimo protettorato causa il discredito e l'isolamento degli Stati Uniti presso tutti i popoli del mondo.

La questione che sorge in questo stadio critico e': cosa possiamo imparare dall'attuale crisi, e quali elementi dobbiamo considerare nei nostri piani per il futuro? Quello che diro' potra' apparire selettivo, ma e' il risultato, comunque modesto, di anni in cui ho lavorato per la causa palestinese come persona che appartiene ad entrambi i mondi, quello arabo e quello occidentale.

Ho sintetizzato quello che voglio dire in quattro punti:

1. La Palestina non e' la causa degli arabi, cristiani o musulmani che siano. Non e' una causa del solo mondo islamico. Essa riguarda molti mondi, differenti, contradditori e persino intersecanti. Chi lavora per la Palestina deve essere consapevole di questi numerosi aspetti e sforzarsi costantemente per educare se' stesso in tal senso. A questo scopo, abbiamo bisogno di una leadership colta, sofisticata e vigile, ed abbiamo bisogno che essa sia sostenuta democraticamente. Inoltre dobbiamo capire, come ha sempre insistito Nelson Mandela in riferimento alla sua lotta in Sudafrica, che il problema palestinese e' una delle grandi cause morali del nostro tempo, e quindi dobbiamo trattarla partendo da questa base. Non e' una questione di negoziati di scambio, o un mezzo per raggiungere una posizione politica. E' una causa che rende i palestinesi obbligati ad innalzarsi all'altezza della propria causa e a restare lassu'.

2. Ci sono diversi tipi di potere, il piu' prominente dei quali e', naturalmente, quello militare. Pero', cio' che ha consentito ad Israele a fare ai palestinesi cio' che sta facendo da 54 anni, e' il risultato di una campagna pianificata attentamente e scientificamente per giustificare le azioni israeliane e, allo stesso tempo, distorcere e manipolare quelle palestinesi. La questione, dunque, non e' il mero possesso di un forte apparato militare, ma la capacita' di indirizzare la pubblica opinione, particolarmente negli Stati Uniti e nell'Europa occidentale.

Questo e' un genere di potere che e' il risultato di un lavoro paziente e metodico che guida la pubblica opinione verso l'enfatizzazione di Israele, mentre i palestinesi, che in questo contesto appaiono come i nemici di Israele, sono dunque persone repellenti, pericolose ed ostili. Dalla fine della guerra fredda, l'importanza dell'Europa in termini di formazione dell'opinione pubblica attraverso le immagini e le idee e' diventata praticamente nulla. Il campo di battaglia (a parte la Palestina) e' oggi l'America. La verita' e' che noi non abbiamo mai capito l'importanza dell'organizzazione metodica di un lavoro politico su base popolare per arrivare ad un punto in cui l'americano medio non sia immediatamente portato a pensare alla parola "terrorismo" correlata alla parola "palestinese". Questo lavoro aiuta di molto la resistenza che, sul campo, i palestinesi oppongono all'occupazione israeliana.

Da cio' possiamo dedurre che l'impunita' di Israele e' causata dal fatto che nessun movimento di opinione corre in nostra difesa per fermare i crimini che Sharon continua a commettere contro di noi, poiche' lui continua a sostenere di stare combattendo il terrorismo, e la gente gli crede.

Se consideriamo l'enorme suggestione causata dalle immagini che la CNN, ad esempio, trasmette giorno e notte, in cui, per centinaia di volte al giorno, viene ripetuta l'espressione "attentato terroristico", allora dobbiamo ammettere che e' stata un'imperdonabile negligenza non aver formato un piccolo gruppo di intellettuali palestinesi, come Hanan Ashrawi, Leila Shahid, Ghassan al-Khatib, Afif Safiyah, solo per citarne alcuni, che stia a Washington e sia pronto ad apparire alla CNN e a tutti i network americani per spiegare la questione palestina quale essa e', per far capire la realta' di quello che sta accadendo, e per mostrars i all'opinione pubblica come una presenza morale positiva. Abbiamo bisogno di una leadership che capisca l'importanza di questo elemento in questo stadio della politica, in un'era dominata dalla comunicazione elettronica. La mancanza di tale consapevolezza e' parte della nostra attuale tragedia.

Hanan Ashrawi



3. Non vi e' beneficio in un lavoro politico responsabile, in un mondo dominato da una singola superpotenza, se non se ne conoscono la storia, le istituzioni, le conflittualita', la politica e la cultura. Inoltre, e' necessario essere padroni del suo linguaggio. (...)L'America non e' una singola massa omogenea. Abbiamo amici veri in America, ed altri che dobbiamo cercare di portare dalla nostra parte. Dobbiamo svilupparci, mobilitarci ed usare la nostra comunita' e le altre comunita' statunitensi in qualche modo collegate a noi come mezzo del nostro lavoro politico per la liberazione nazionale, proprio come ha fatto il Sudafrica o l'Algeria in Francia durante la sua lotta per l'indipendenza. Quello che ci vuole e' pianificazione, disciplina e coordinazione, come risposta alla politica di esclusione e di guerra degli israeliani: e' uno sforzo decisivo per isolare i purificatori ed i razzisti all'interno del loro stesso popolo.

4. La lezione piu' importante per capire noi stessi e' racchiusa nelle terribili tragedie che Israele sta perpetrando nei Territori occupati. La ferma realta' e' che noi siamo un popolo ed una societa', e questa societa' continuera' ad esistere nonostante i feroci attacchi israeliani.

Siamo un popolo perche' abbiamo una societa' che resiste, come ha continuato a resistere per oltre 50 anni, malgrado tutte le violenze, le vicissitudini crudeli della storia e le tragedie che abbiamo sofferto. La nostra maggiore vittoria contro Israele e' il fatto che Sharon e quelli della sua pasta non hanno la capacita' di capirlo. E questo rendera' inevitabile il loro fallimento nonostante l'enorme sproporzione militare e la disumana ferocia di cui hanno dato prova. Siamo sopravvissuti alle nostre tragedie ed ai nostri disastri, mentre gli israeliani come Sharon non ne sono capaci. Sharon morira' lasciando il ricordo di un assassino di palestinesi, un politico fallito che ha portato solo problemi anche al suo stesso popolo. Qualsiasi leader deve lasciare qualcosa su cui costruire per le generazioni future. Sharon, Mofaz e i loro sostenitori, con la loro sadica campagna di morte e massacri, non lasceranno altro che tombe. Sono la morte che genera solo morte.

In quanto palestinesi, noi possiamo dire, io credo, che lasciamo la consapevolezza di essere una societa' che ha resistito a tutti i tentativi di annientamento. E questo non e' certamente poco. Il compito della prossima generazione, i miei figli ed i vostri figli, e' andare avanti partendo da questo punto, con spirito razionale e critico non privo di speranza e tenacia.



*
Edward Said, palestinese, e' professore di Letterature Comparate all'Universita' Columbia di New York







janet


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janet
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Posted - 13 September 2003 :  20:47:36  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando
E' bene stampare tutte le notizie, tranne ...



... quelle sfavorevoli ad Israele







Raff Ellis
YellowTimes.org


Tutti sanno che questo popolare slogan, naturalmente leggermente modificato, appartiene al maggiore quotidiano nazionale. Nel mondo d'oggi, questi slogans sono stati del tutto svuotati del loro significato, cosi' come senza significato sono i nomi dei giornali, quegli stessi nomi che, nel passato, erano simbolo di integrita' nel riportare le notizie. L'araldo, la tribuna, la sentinella, la cronaca etc..., sono nomi associati all'antico compito di raccogliere e distribuire le informazioni. Sfortunatamente, quella tradizione e' caduta vittima della manipolazione politica e corporativa che ha reso obsoleto il giornalismo imparziale.
Nel mondo d'oggi le redazioni dei giornali assomigliano sempre piu' a fabbriche di pretzel, in cui le storie, proprio come i celebri biscotti, vengono rivoltate, composte, spruzzate con il sale della parzialita' e cotte fino a renderle un prodotto gradevole per il consumo di un pubblico sempre piu' credulone. Le risultanti "notizie" sono progettate per essere buone e per essere consumate senza fare domande.


L'esempio piu' egregio di tale comportamento e' fornito dal trattamento subito dalle notizie provenienti dal Medioriente.
Criticare lo stato d'Israele non e' una buona mossa in America, ne' per i giornalisti ne' per i politici. Quindi, il migliore esempio della parzialita' dei media consiste nell'evitare di parlare delle atrocita' commesse da Israele. Ecco dunque una panoramica delle notizie che non leggerete mai.

Articolo 1. Funzionari umanitari delle Nazioni Unite in Afghanistan sono stati sommariamente assassinati dalle truppe governative mentre aspettavano di trasportare i loro billets. I soldati ordinarono ai funzionari di inginocchiarsi faccia a terra e poi, all'improvviso, li tempestarono di proiettili, uccidendone sette e ferendone molti altri. Cosa? Oh, si tratta di un errore. Non si trattava di funzionari ONU ed afghani; erano gli operai palestinesi di Rishon Lezion, uccisi dai militari israeliani il 20 maggio 1990, mentre aspettavano l'autobus per Gaza.

Articolo 2: Alcuni israeliani a Basra, Iraq, sono stati costretti a spogliarsi sotto la minaccia delle armi e obbligati a camminare a quattro zampe, sotto lo sguardo di amici e parenti. Indovinato. Non si tratta dell'Iraq, ma della citta' palestinese di Nablus, il 24 novembre 2002, quando alcuni palestinesi sono stati costretti a denudarsi sotto la minaccia delle armi. "Hanno obbligato Yasser Sharif, 25 anni, a spogliarsi completamente, incluso la biancheria intima ... Gli hanno ordinato di camminare come un cane fino a quando non e' scoppiato in lacrime", ha dichiarato il pompiere palestinese Samir al-Lifdawi, testimone oculare della scena, immortalata da un fotografo della Reuters.


Articolo 3: L'ex mufti capo dell'Arabia Saudita ha apertamente invocato la "Soluzione Finale" per annientare gli ebrei. Parlando durante il sermone della fine del Ramadan, ha dichiarato: "Dio fara' ricadere le loro azioni sulle loro teste, spargera' il loro seme e li sterminera', devastera' il loro abitato e li fara' svanire dal mondo. E' proibito avere pieta' di loro. Bisogna colpirli con missili fino ad annientarli. Sono dannati e cattivi". Ancora una volta avete indovinato. La ragione per la quale non avete mai letto questa terribile storia e' che essa e' accaduta in Israele, ad opera dell'ex rabbino capo Ovadia Yusef, leader spirituale del partito Shas (il terzo partito in Israele). Ovadia Yusef fece queste farneticanti dichiarazioni in un discorso che segnava la fine della Pasqua ebraica, chiedendo apertamente la "soluzione finale" per annichilire i palestinesi.

Articolo 4: Le truppe egiziane hanno invaso il quartiere ebraico del Cairo e desecrato il tempio facendone esplodere l'ingresso e causando seri danni alla struttura. Dopo essere entrati, i militari egiziani hanno urinato e defecato nel tempio, arrestandone il rabbino ed il cantore prima di andare via. Colto sul fatto: non e' avvenuto in Egitto, ma in Palestina, a Jenin e Dura, e si trattava di soldati israeliani in due moschee. L'obbrobrioso atto avvenne a Jenin il 24 novembre 2002 e a Dura il 25 settembre 2002. A Jenin, i militari israeliani fecero saltare in aria l'ingresso della moschea, vi entrarono senza scalzarsi ed arrestarono l'imam della moschea ed il muezzin (colui che fa il richiamo alla preghiera), prima di andar via. A Dura, le truppe israeliane urinarono e defecarono all'interno della moschea, ed issarono la bandiera d'Israele in cima al minareto.

Se tutte queste storie fossero state atrocita' commesse ai danni di ebrei o israeliani invece che palestinesi o arabi, le testate dei giornali avrebbero strillato a piu' non posso. Il presidente ed i parlamentari si sarebbero precipitati a condannare gli atti criminali e vi garantisco che non avremmo mai sentito i teneri rabbuffi che abbiamo udito, del tipo "hanno avuto la mano un po' pesante".

Potrei continuare ancora a lungo a parlare di atrocita', incluso stupri e furti, in aggiunta a tutti gli assassinii casuali da parte di Israele che restano indocumentati sulla stampa americana. I supporters di Israele non amano questo genere di pubblicita' e fanno tutto cio' che e' in loro potere per sopprimerne la pubblicazione. I media continuano a dipingere gli occupanti come coloro che hanno sempre la peggio e che lottano per la sopravvivenza contro le orde musulmane d'Arabia. Un'immagine che non e' mai esistitita e che oggi, francamente, fa ridere.

A fianco a queste notizie mai stampate di fatti reali, vi e' una irresponsabile serie di non-eventi riportati come verita' da "fonti credibili" ma, ovviamente, anonime. L'esempio piu' recente e' la notizia secondo cui al-Qaida starebbe costituendo cellule terroristiche in Cisgiordania. Questa notizia e' stata attribuita ad un messaggio e-mail che sarebbe stato inviato da un'unita' operativa di al-Qaida e convalidata da nessun altro se non il primo ministro d'Israele il quale ha tutto l'interesse che notizie del genere circolino. Naturalmente tutti noi sappiamo quanto sia facile fabbricare falsi messaggi internet. In seguito, fonti straniere hanno chiarito che dietro tutta la faccenda vi era la mano lunga degli agenti del Mossad.

Un altro esempio e' dato dalla recente decisione del Canada di includere Hezbollah nella sua lista di organizzazioni terroristiche. La decisione e' stata motivata dalla circolazione di una notizia, secondo cui un leader del gruppo aveva ordinato una serie di attacchi kamikaze in tutto il mondo per colpire interessi americani ed israeliani. Implicato nella circolazione della falsa notizia, smentita categoricamente dal gruppo libanese, risulta essere un giornalista britannico, gia' precedentemente implicato in fatti del genere. La smentita di Hezbollah, ovviamente, non ha fatto il giro del mondo.
Naturalmente, quando il canarino ha messo le ali e' impossibile fermarne il volo. La disinformazione da parte dei media e' oggi cosi' rampante che persino i piu' fondamentali standards giornalistici, quale quello di verificare le fonti, sono defunti da tempo.

L'ironia della sorte e' che parte di questi argomenti sono riportati o discussi nella stampa israeliana, cosa del tutto impossibile nella stampa americana supercontrollata. L'uomo della strada, in America, e' completamente ignaro di cio' che accade e, se le nostre stimate organizzazioni di notizie lo vogliono, lo sara' per sempre.


E' bene stampare tutte le notizie. Davvero.









janet


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janet
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Posted - 13 September 2003 :  21:04:50  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando
MEMORIE DELLA RIVOLTA



PAGINE TRATTE DALL’OMONIMO LIBRO DELLO SCRITTORE AMERICANO TED SWEDENBURG, PROFESSORE DI ANTROPOLOGIA ALL’UNIVERSITA’ AMERICANA DEL CAIRO E CHE, NELLO SFORZO DI RICOSTRUIRE UNA CONTROSTORIA DELLA VICENDA PALESTINESE, PARTE DALLA RIVOLTA DEL 1936-39 PER ARRIVARE AI NOSTRI GIORNI. IL LIBRO E’ EDITO DALLA “UNIVERSITY OF MINNESOTA PRESS”.



Non ci sono stanze nel racconto

Quando lasciammo il Parco Nazionale Achziv, Sonia ed io ci imbattemmo in una coppia statunitense di mezza eta’ che aveva appena visitato il kibbutz Gesher Ha-Ziv. Ci scambiammo le piacevoli impressioni ricevute dall’incontro con turisti americani: “Da quale stato venite? Vi siete divertiti qui in Israele?”. Poi, con mio grande sconforto, Sonia comincio’ ad agitarsi. “Dovreste andare all’interno del parco e guardare le costruzioni”, disse alla coppia. “Quello che hanno fatto a noi Palestinesi e’ terribile, hanno distrutto il nostro villaggio. Mio nonno ci viveva, qui”, aggiunse “hanno distrutto la sua casa ed espulso il resto della famiglia in Libano”.

Mentre Sonia parlava, io guardavo attentamente gli occhi della coppia per vedere se il concitato racconto di Sonia producesse qualche effetto. Non ci fu la minima variazione: fu come se Sonia non avesse emesso una sola parola. Il “racconto”non penetro’ in loro, la storia sembro’ non avere alcun peso poiche’ “solo I fatti hanno significato, entro cornici esplicative”. Quando lei termino’, la coppia semplicemente riprese lo scambio di amabili, banali piacevolezze. Poiche’ essi avevano gia’ assorbito il messaggio che I turisti in Israele ingeriscono come routine, una storia che conferma, sul terreno, quello che gia’ sapevano prima di venire. Forse essi hanno gia’ visitato la Cittadella di Acca, Yad Vashem, Masada, Canada Park, e gli altri siti storici che segnano la storia di Israele, ed hanno imparato troppo bene una storia che non puo’ contenere alcun “controfatto”. I Palestinesi e la loro storia non hanno nessuna stanza nella narrativa che essi conoscono – tranne, forse, che come terroristi.

Scene di distruzione: il lavaggio delle pareti

“Devi visitare la prigione di Akka”, mi intimo’ Hisham, mentre bevevamo insieme un te’, seduti nel suo appartamento in Jabotinskiy Road. Hisham, un pubblicista, era uno dei tredicimila Palestinesi con cittadinanza israeliana che vivono nella citta’ “mista” del nord di Israele, chiamata Akko in ebraico, Akka in arabo. “Si possono ancora vedere le scritte dei prigionieri sui muri, li’”, continuo’. “ Troverai il nome di Abu Hakim tra di esse. Fai una fotografia dei graffiti che lui fece, e poi portali a vedere a lui stesso, a Gaza. Comincera’ a piangere, e ti raccontera’ grandi storie degli anni che passo’ in prigione durante il mandato britannico. Se avessi posseduto una macchina fotografica, io stesso lo avrei fatto”.



Sonia ed io stemmo ad Akka per alcuni giorni e facemmo interviste con I combattenti della rivolta del ’36, godendo del temperato clima marittimo e di una breve pausa concessaci dall’occupazione militare. Altri amici ci avevano gia’ raccontato delle scritte dei prigionieri sui muri della prigione di Akka, e molti ci avevano narrato storie della vita in prigione. Durante la rivolta del 1936-39, centinaia di Palestinesi vi furono incarcerati, in quella che all’epoca era la Prigione Centrale Palestinese, e la maggior parte dei 112 Arabi condannati a morte per offese alla sicurezza connesse alla rivolta, furono impiccati alle forche di Akka.

Mentre ci avviciniamo alla Cittadella (al-qala’) di Akka, che ospita la vecchia prigione ed e’ un’importante attrazione turistica, ci accorgiamo che, come la maggior parte degli edifici storici in Israele/Palestina, la Cittadella e’ stata costruita sulle rovine di innumerevoli antichi monumenti. I loro indistinti strati si accavallano gli uni sugli altri a formare le fondamenta della struttura, testimoni della antica e complessa storia di questa citta’ portuale. I Fenici la chiamarono ‘Akko, e gli antichi Israeliti, che non la conquistarono mai, usavano lo stesso nome. Gli Arabi, che la conquistarono nel 636 d.C la ribattezzarono ‘Akka. I Crociati la conoscevano con il nome di Saint Jean d’Acre. Il palazzo della Cittadella che esiste oggi e’ stato costruito su una precedente fortezza crociata dal famoso governatore Ottomano di origine bosniaca, Ahmad al-Jazzar Pasha, meglio conosciuto per aver tenuto testa all’attacco di Napoleone contro la citta’, nel 1799, mettendo fine alle sue ambizioni di conquista della Siria. Quando I Britannici presero possesso della citta’ nel 1919, trasformarono la Cittadella di Jazzar nella Prigione Centrale Palestinese. Dopo che ‘Akka cadde nelle mani degli Israeliani, nel 1948, lo stato trasformo’ la Cittadella in centro di igiene mentale e, solo nel 1980, in attrazione turistica.

Sonia ed io entrammo nella fortezza, alla ricerca di iscrizioni arabe sulle pareti, ma non ne trovammo nessuna. Le pareti della vecchia prigione apparivano imbiancate di fresco, e tutte le tracce delle iscrizioni erano state cancellate.

La stanza delle esecuzioni allo stesso modo era stata privata delle vestigia che avrebbero potuto evocare memorie Arabe. I tanti uomini anziani da noi incontrati ci avevano raccontato storie di “eroi nazionali” come Mohammed Jumjum, Fu’ad Hijazi e ‘Ata al-Zayr, che affrontarono coraggiosamente il patibolo per aver preso parte ai sanguinosi eventi del 1929. Altri ricordavano lo sheykh Farhan al-Sa’di, un compagno di Ezzedin al-Qassem. Farhan,un importante comandante dei ribelli nell’area di Jenin, fu il primo tha’ir (rivoluzionario) ad essere condannato a morte sotto I Regolamenti di Difesa, che ordinavano la pena capitale per tutti coloro che possedevano armi e munizioni. Il suo processo, in una corte militare, duro’ tre ore. Lo shaikh Farhan fu impiccato nella stanza delle esecuzioni il 27 novembre 1937, mentre digiunava per il mese di Ramadhan e nonostante gli avvocati avessero chiesto la grazia a causa dell’eta’ avanzata (aveva circa ottant’anni).

Ma adesso, in questa prigione, vengono commemorati solo gli otto Ebrei condannati a morte dagli Inglesi (di cui solo uno fu giustiziato durante la rivolta del 1936-39). Una luce perpetua brucia in onore di questi martiri. Il dramma esibito dagli Ebrei mostra gli attori chiave, I colonialisti britannici, e I prigionieri Ebrei. Il compimento della narrazione e’ la creazione dello stato d’Israele. Tale storia ottiene coerenza mediante le distruzioni, le marginalizzazioni, le distorsioni di cui e’ stata vittima la storia Palestinese. Secondo tale concezione la rivolta Araba del 1936-39 non ha carattere anti-Britannico ed anti-coloniale, ma anti-Ebraico, perche’ solo al movimento Sionista spetta la designazione di movimento nazionalistico. Per fare cio’, occorre revisionare la storia del movimento Sionista e ricodificarla, eliminando da essa tutto quello che puo’ riferirsi alla collaborazione Sionista con la Gran Bretagna, ed al ruolo di sponsor sostenuto da quest’ultima nella creazione di una patria per I colonialisti Ebrei. Nel 1922, dopo che la Gran Bretagna aveva assunto il mandato, la comunita’ Ebraica in Palestina contava l’11% della popolazione totale, mentre nel 1943, attraverso l’immigrazione, era salita al 31,5%. Una immigrazione su cosi’ vasta scala fu possibile solo attraverso la protezione dell’esercito Britannico. Solo negli ultimi anni del mandato si crearono delle tensioni tra I coloni ed I loro sponsor imperiali. Cosi’ la Cittadella di Akka presenta la fiaba di una lotta unitaria degli Ebrei per l’indipendenza con la “dimenticanza” che gli “eroi” memorializzati in essa – membri della Banda Stern e dell’Irgun – commisero atti violenti contro gli Arabi che lo stesso Sionismo condanno’.

I resti dei prigionieri Arabi riappaiono in forma disumana sui murali del museo. Tali dipinti mostrano feroci prigionieri Arabi che brandiscono coltelli, e con essi minacciano gli innocenti Ebrei, che rispondono alla violenza o per auto-difesa o per “rappresaglia”. La narrativa storica Israeliana e’ presentata come la ripetizione costante dell’aggressione e del terrorismo Arabo contro gli inermi Ebrei. Eppure la storia che stabilisce l’innocenza degli Ebrei e’ spaventosa. Questa paura fantastica del Palestinese forse da’ un’idea di cio’ che e’ stato fatto contro di lui, e probabilmente l’immagine dell’Arabo come bestia disumana e’un simbolo terrificante dell’alto prezzo pagato dai Palestinesi affinche’ si realizzasse lo stato nazionale degli Ebrei. Anche se nel museo l’ “altro” e’ chiamato Arabo e non Palestinese, la sua testa e’ coperta dalla kufiya, simbolo del terrorista Palestinese per eccellenza. La kufiya qui rappresenta e testimonia un passato che la continua distruzione non puo’ completamente eliminare.

Sforzi simili sono stati compiuti al di fuori della Cittadella, per far sparire ogni traccia Palestinese dalla citta’ di Akka. All’inizio del 1948, la popolazione cittadina (tutta araba prima della rivolta del 1936-39) era di 15.500 persone. Nel novembre dello stesso anno, caduta nelle mani dell’Hagana in maggio, era di 3.100 unita’. Subito dopo fu iniziata la politica di ebraizzazione di Akka/Akko; gli Ebrei vi si stabilirono, entrando in possesso delle proprieta’ Palestinesi, e la citta’ si espase ad est fino a inglobare le rovine del villaggio Arabo di al-Manshiya. Nel frattempo la parte Araba della citta’fu distrutta, avendo fatto crollare tutti gli edifici storici. “Svuotata” quindi delle costruzioni arabe, la citta’ poteva diventare, negli anni ’70, un’attrattiva turistica “sicura”. La vecchia prigione, imbiancata e ripulita dalle tracce di storia Palestinese, poteva diventare Museo dell’Eroismo Ebraico, la cui narrativa tralascia di raccontare che gli Eroi qui ricordati erano Ebrei Sefarditi che, mescolati anonimamente alla popolazione Araba, nel 1938 posero una successione di bombe nei mercati delle citta’ “miste” di Gerusalemme, Tel Aviv e Haifa. Alla fine di giugno 1938 da sette a dieci Arabi furono uccisi; nel luglio successivo altri 77. Su questi dettagli il museo dell’Eroismo e’ silente.

Yad Vashem e ‘Ain Karim

Lo stesso inverno feci una visita a Yad Vashem a Gerusalemme, il memoriale dell’Olocausto di Israele ed, insieme, monito a non dimenticare. A fianco della mostra permanente, il sito ospita un centro di ricerca dedicato ad archiviare, autenticare, elaborare e spargere il ricordo dell’Olocausto.

Come sanno tutti coloro che hanno visitato Yad Vashem, il museo effettivamente convoglia un messaggio attraverso delle immagini eloquenti. Si puo’ solo meditare sull’enormita’ dei crimini nazisti e sulle sofferenze che questi causarono. Ma, nonostante le sue pretese, Yad Vashem non comunica un messaggio universale sull’oppressione. I diplomatici in visita in Israele, prima di qualsiasi colloquio ufficiale, devono inchinarsi a Yad Vashem, e la lezione che essi danno non e’ “universale”. Perche’ Yad Vashem e’ un sito storico nazionale, parte di un sistema di segni che costituiscono la storia Israeliana. L’anti-semitismo e’ presentato non come un fenomeno storico, ma come caratteristica permanente dell’Ebreo errante tra I Gentili. Yad Vashem, secondo Tom Segev, “ lascia (il Nazismo e l’antisemitismo) senza spiegazione, come se questi fossero fenomeni con una spiegazione ovvia, quasi naturale”. Secondo questa logica, la creazione dello stato di Israele, e’ stata necessaria per fornire rifugio dai futuri olocausti e pogroms, inevitabili finche’ I Giudei continuano a vivere in esilio. Piu’ che spingere I visitatori ad opporsi a tutte le oppressioni in generale, quindi, Yad Vashem li esorta a non dimenticarne uno particolare, un’atrocita’che e’ piu’ senza tempo che storica. Il ricordo che uno si porta via, uscendo dal museo, e’ che la violenza anti-semita puo’ sempre riesplodere da un momento all’altro, in ogni luogo, per cui solo l’esistenza di un Israele sempre vigile garantisce la sopravvivenza degli Ebrei. Tale immagine dell’ Olocausto pone gli Ebrei “ al di sopra della storia e del giudizio morale del mondo”. In questo modo Begin, durante l’invasione del Libano nel 1982, pote’ dire: “Nessuno, in nessuna parte del mondo, puo’ dare lezioni al nostro popolo sul concetto di umanita’!”.

Come la Cittadella di Akka, Yad Vashem contiene tracce Arabe, nella forma di una gigantografia del Gran Mufti di Gerusalemme – leader del movimento nazionale Palestinese dagli anni ’20 agli anni ’50 – in esilio in Germania durante la II Guerra Mondiale. Il Mufti e’ ripreso mentre viene salutato da Heinrich Himmler ed ispeziona I volontari Musulmani nella Wehrmacht. A lato della foto pende una copia della lettera inviata dal Mufti a Ribbentrop, in cui chiede che il governo tedesco faccia il possibile per evitare l’emigrazione degli Ebrei balcanici in Palestina. Yad Vashem ricorda il leader Palestinese semplicemente come un collaboratore di Hitler e, attraverso questa immagine, l’intero popolo Palestinese appare metonimicamente implicato nei crimini nazisti. Il nazionalismo Palestinese e’ cosi’ ridotto ad una varieta’ di antisemitismo che ha prodotto l’Olocausto ed il leader nazionale Palestinese ad un selvaggio criminale di guerra al servizio del nazismo.

Altre fotografie a Yad Vashem mostrano I nazisti in ritirata intenti a cancellare le tracce dei loro crimini dalla faccia della terra. Yad Vashem si autoproclama un atto di sfida, una contromemoria agli sforzi nazisti di cancellare I segni delle loro trasgressioni. Come suona dunque ironico che lo stesso memoriale (nato come sfida contro gli occultamenti della verita’ fatti dagli oppressori) sia stato costruito su delle terre appartenenti al villaggio Palestinese di ‘Ain Karim, considerato il luogo di nascita di Giovanni il Battista. Nel 1948, 3.200 Palestinesi Cristiani e Musulmani risiedevano in questa comunita’ rurale. Molti di questi scapparono dopo il massacro di 254 Palestinesi compiuto dalle bande unite Irgun e Stern contro il vicino villaggio di Deir Yasin, nell’aprile 1948; quelli rimasti furono allontanati in luglio dalle forze Ebraiche. Oggi, questo precedente villaggio Palestinese, e’ un sobborgo alla moda di Gerusalemme chiamato Ein Karem, le sue strade esotiche e la sua veduta panoramica sono frequentate da yuppies Israeliani, mentre I 30.000 abitanti originari di ‘Ayn Karim e I loro discendenti, vivono da profughi in Giordania.

Yad Vashem, monumento alla memoria della sofferenza umana, monito contro I pericoli delle persecuzioni ignorate, e’ esso stesso un atto materiale di repressione, una “dimenticanza” attiva. Eppure anch’esso e’ ossessionato dal continuo ritorno degli oppressi: nel 1987, la compagnia di costruzione Histradut Solel Boneh assunse dei lavoratori Palestinesi affinche’ costruissero un monumento in pietra a Yad Vashem che commemorasse la sparizione delle comunita’ Ebraiche in Europa.

Contromappe

“Molte volte, in Israele ed all’estero, ho visto mappe del 1948, in cui centinaia di villaggi e citta’ ora scomparsi sono annotati e queste vengono distribuite dalle istituzioni Palestinesi della diaspora. E queste mappe sono piu’ pericolose di qualsiasi bomba”.

Uri Avneri

“I Palestinesi rifiutano di soddisfare il sogno Sionista rifiutandosi di smaterializzarsi”.

Haim Bresheeth

La presenza fantasma dei Palestinesi continua ad aleggiare nei siti della narrativa di stato. Nel 1972 un giovane giornalista Israeliano,Y. Geffen, scrisse di un sogno da lui fatto, in cui un Palestinese entrava nella sua casa: “Lui sposto’ dalla parete il ritratto di mio nonno, e sotto vi era il ritratto di suo nonno…Per lungo tempo ho avuto la sensazione che questa casa non fosse mia, e questo e’ tipico dell’adolescente Israeliano medio: sento che qualcuno ha vissuto in questa casa prima che noi arrivassimo”. I rifugiati del villaggio artistico di Marcel Janco di Ein Hod hanno raccontato storie simili ai ricercatori dell’universita’ di Birzeit. Gli Ebrei stabilitisi li’, hanno detto, hanno delle difficolta’ nel vivere in case Arabe, e ogni notte si svegliano al rumore di rintocchi sulle loro porte. Vanno a vedere f, ma non vi trovano nessuno, e la faccenda va avanti finche’ gli abitanti Ebrei non interrogano un Palestinese che vi abitava un tempo sui meccanismi della espulsione della popolazione precedente.

Molte storie circolano a proposito del permesso per le visite di ritorno al paese d’origine concesso a qualche migliaio di Palestinesi. Ghassan Kanafani, ad esempio, ha fatto un film-documento sul suo Ritorno ad Haifa. Il mio amico George, cittadino statunitense, fece una visita simile alla casa della West Bank in cui viveva il suo papa’ Palestinese, ora psichiatra residente in California . Suo padre non ebbe il coraggio di partecipare alla visita. Dopo aver localizzato la casa con l’aiuto di vecchie fotografie e con l’ausilio dei parenti, George busso’ alla porta della casa. Rispose una vecchia coppia di Ebrei. George chiese il permesso di vedere la casa, spiegando che essa apparteneva a suo nonno. I coniugi lo lasciarono entrare, ma, piuttosto sulla difensiva, gli spiegarono che la casa era stata data a loro dal governo, dicendogli che essa era vuota fin da prima del 1948. George, che aveva le prove che la sua famiglia aveva vissuto li’ fino al 1948, mantenne la calma.

Ne La Terza Via, l’avvocato di Ramallah Raja Shehada, fa la cronaca del suo “ritorno” a Jaffa nei tardi anni ’70. “Pensavo che sarebbe stata una grande esperienza”, scrive, “che sarebbe cominciata con la visita alla casa dei miei genitori, da cui erano stati espulsi nel 1948”. Ma la sua speranza fu frustrata dalla “ricostruzione millimetrica” di Jaffa, che aveva cancellato ogni traccia del suo precedente, vibrante carattere Arabo, e cio’ lo aveva lasciato profondamente umiliato. Shehada torno’ nella West Bank, dove localizzo’ la sua vera casa, il suo posto di combattimento, nella Cisgiordania, sotto l’occupazione militare. La trasformazione di Jaffa e’ un segno della permanenza di Israele nel criticismo della sua nostalgia per cio’ che non tornera’ piu’.

Intifada: il prossimo fuoco

I media Israeliani e Statunitensi ignorano ampiamente il Rapporto Annuale del Centro Palestinese di Informazione sui Diritti Umani del 1991, il quale stima che tra l’inizio dell’intifada nel dicembre 1987 e l’ottobre 1991, le forze di occupazione Israeliane hanno sradicato circa 120.000 alberi (inclusi 84.000 alberi di olivo) nei Territori Occupati, come punizione collettiva. Molti alberi adulti furono successivamente ripiantati negli insediamenti Ebraici. I vigilanti degli insediamenti furono anche riconosciuti colpevoli per aver danneggiato altri alberi, soprattutto olivi, spruzzando pesticidi, bruciando foreste e distruggendo raccolti nelle aree Palestinesi. Nel settembre 1990 le televisioni e le radio governative proibirono l’uso di nomi Arabi per le citta’ ed I villaggi Palestinesi, ordinando l’uso di nomi biblici. Secondo Shlomo Kor, autorita’ del servizio televisivo Israeliano, la decisione rifletteva il concetto che gli Ebrei erano tornati nella “terra di Israele e non in Palestina”. Nell’ottobre dello stesso anno, le autorita’ militari a Nablus informarono I tipografi che costituiva reato stampare qualsiasi testo, politico, sociale, scolastico o altro, contenente la parola “Palestina”. L’inizio dell’intifada coincise anche con la nascita del nuovo Partito Moledat, che ottenne due seggi alla Knesset nelle elezioni del novembre 1988 sulla base di una singola piattaforma che invocava il “trasferimento forzato” dei Palestinesi dai Territori Occupati, e con lo slogan: “Ripuliamo Israele dai Palestinesi”. Il leader del Moledat, Rehavam Ze’evi, soprannominato Ghandi a causa del suo aspetto fisico, e consigliere del primo ministro Yitzak Rabin, si riferiva ai Palestinesi chiamandoli “Ismailiti” e si uni’ al governo di coalizione del Likud nel febbraio 1991. I sondaggi del 1988 indicavano che tra il 41 ed il 49% degli Israeliani sosteneva il “trasferimento” dei Palestinesi dai Territori Occupati come soluzione preferita del problema Israelo-Palestinese.

In ultimo, qualche parola per il soave Benjamin Netanyahu, attualmente leader del Likud. Netanyahu e’ molto conosciuto negli USA per essere stato ambasciatore alle Nazioni Unite, esperto di terrorismo, e ospite d’onore nel notiziario di McNeil-Lehrer. Parlando agli studenti della Bar-Ilan University, nel periodo in cui era candidato a Ministro degli esteri, Netanyahu dichiaro’ che “Israele avrebbe dovuto approfittare della repressione in Cina in piazza Tienanmen, e del fatto che l’attenzione mondiale era focalizzata su quegli avvenimenti, per attuare una deportazione in massa dei Palestinesi dai territori. Sfortunatamente, il piano da me proposto non ha avuto successo, ma suggerisco ancora di metterlo in pratica”.

( Riportato da Yediot Aharonot ,24 novembre 1989)

Repressione culturale

Nel 1983 le autorita’ militari processarono lo scrittore ed attivista politico Sami Kilani per aver pubblicato un volume di poesie dedicate a Ezzedin al-Qassam (eroe e martire della rivoluzione Palestinese degli anni ’30). L’accusa stabiliva che evocare il nome di Qassam costituiva un atto di “incitamento”, un’offesa punibile. Kilani fu condannato a detenzione amministrativa e il suo arresto duro’ piu’ di tre anni. In tre diverse occasioni, I soldati irruppero nella casa di famiglia a Ya’bad all’alba per portare via Sami; ogni volta sequestrarono la sua intera libreria (incluso un libro di cucina, nell’ultima occasione, nel 1985). Per tre volte lo scrittore, uscito di prigione, dovette ricostituire la sua biblioteca. Qassam e’ uno dei tanti simboli Palestinesi della lotta contro la dominazione coloniale. Gli occupanti continuamente tentano di cancellare questi simboli dalla memoria collettiva, impedendo la circolazione di simboli nazionali e stornando con la forza I tentativi Palestinesi di costruire una cornice istituzionale di societa’ civile. Poiche’, come asserisce Benedict Anderson, le nazioni accumulano I ricordi attraverso la parola stampata, non ci si deve sorprendere che lo stato d’Israele cerchi di negare ai Palestinesi l’accesso al collezionamento delle memorie bloccando la produzione e la circolazione di libri sulla storia e sulla cultura Palestinese. La censura israeliana ha bandito migliaia di libri dai Territori Occupati: la sua prima preoccupazione, secondo Meron Benvenisti, e’ “ sradicare ogni forma espressiva che possa incitare I sentimenti nazionalisti Palestinesi, o che suggerisca che il popolo Palestinese costituisce una nazione con un proprio retaggio nazionale”.

Anche I bambini a scuola possono imparare poco sulla storia del loro popolo, a causa del controllo sui libri di testo. Secondo Christine Dabbagh, dell’ufficio pubbliche relazioni della United Nations Relief and Works Agency (UNRWA), che opera in 146 scuole dei campi profughi di Gaza, le autorita’ Israeliane confiscano puntualmente la meta’ dei libri di testo Arabi che l’UNRWA cerca di far arrivare a Gaza. “Persino I testi di matematica per la scuola media vengono accusati di incitare alla rivolta”, asserisce Dabbagh. Le istituzioni Palestinesi – universita’, gruppi di ricerca, giornali – che cercano di preservare, produrre e accumulare una contromemoria Palestinese, sono sottoposti costantemente a vessazioni e chiusure, e I dirigenti di tali organizzazioni spesso sono arrestati o perfino deportati.

Anche la memoria privata non e’ esente dalla repressione. Molti veterani della rivolta del 1936-39 conservavano documenti personali, diari, fotografie, comunicati e altri ricordi dell’insurrezione, ma quasi tutti questi archivi personali sono andati perduti successivamente – o confiscati durante l’occupazione militare Israeliana, o distrutti dagli stessi rivoltosi nel timore di poter essere incriminati se scoperti dalle forze di sicurezza.

La mia religione e’ Palestinese

Molti vecchi mujahiddin affermano che, durante la rivolta, I Palestinesi riuscirono a trascendere ogni divisione religiosa che avrebbe potuto separare la nazione. Mi fu detto che nessuna differenza significativa divideva I Cristiani dai Musulmani o I Sunniti dai Drusi poiche’ tutti erano Palestinesi e tutti erano uniti all’interno della nazione. In molti racconti popolari, la “Palestinita’” era sentita come pi’ importante per il senso di identita’ personale che la religione. Quando gli chiesi quale fosse stato il ruolo dei Cristiani Palestinesi nella rivolta, Abu Shahir rispose: “Non vi erano differenze basate sulla religione. La mia religione e’ Filastini (Palestinese). Per lui qualsiasi distinzione settaria si ricomponeva nell’essere Palestinesi. Alcuni abitanti dei villaggi della West Bank ricordavano una canzone del tempo della rivolta che sembrava incapsulare questo spirito ecumenico. “Sayf al-Din, al-Hajj Amin”(Spada della religione, Haji Amin) divenne lo slogan nazionale che I sostenitori della rivolta cantavano in tutto il paese. Ma nei villaggi della Galilea, dove c’era una consistente minoranza di Cristiani e dove molti ribelli erano Cristiani, I vecchi ricordavano un’altra versione del canto: “Sayf al-Din, al-Hajj Amin, muslimin wa masihain!”(Spada della religione, Haji Amin, musulmani e cristiani). Il canto della Galilea presentava, quindi, il Mufti ( Musulmano) come il difensore di entrambe le religioni, come capo di una nazione che comprendeva equalmente Cristiani e Musulmani.

Patriottismo sartoriale

Tra I simboli piu’ importanti associati alla lotta popolare Palestinese vi e’ la kufiya, il copricapo Palestinese. La storia della sua adozione come simbolo nazionale e’ significativo dei processi attraverso cui si e’ forgiata l’unita’ nazionale mediante l’annullamento delle differenze. Prima della ribellione del ‘36-39, I contadini Palestinesi indossavano per lo piu’ la hatta, un copricapo bianco tenuto fermo da una corda, e anche la stessa kufiya simboleggiava l’appartenenza a classi rurali. Gli effendi, cioe’ gli appartenenti alla classe media istruita della citta’ erano soliti indossare il tarbush o fez. Con l’affacciarsi del nazionalismo, il tarbush comincio’ ad essere contestato e, all’inizio degli anni ’20 I nazionalisti Arabi iniziarono una campagna per distinguersi dai Turchi Ottomani che indossavano appunto il fez, ritornando al copricapo Arabo per antonomasia, cioe’ la kufiya. Tale inclinazione subi’ un’impennata in seguito alla rivolta del ’36, quando I guerriglieri cominciarono ad usarla come simbolo di appartenenza. Il 26 agosto 1938, quando la rivolta stava per raggiungere il suo apogeo e cominciava ad avere il controllo sulle aree urbane, la leadership della rivolta comando’ ai Palestinesi di bandire il tarbush e di indossare la kufiya per “dimostrare la completa solidarieta’ di tutto il popolo con la lotta, e come segno che tutti, nel paese, erano ribelli.”. Gli ufficiali Britannici furono sorpresi di come la nuova moda si propagasse in tutta la Palestina con “la rapidita’ della luce” (Palestine Post, 2 settembre 1938).

La kufiya divenne emblema della lotta nazionale e immagine di unita’ , e intorno alla meta’ degli anni ’60 il copricapo bianco della thawra si trasformo’nella tipica kufiya a quadretti bianchi e neri. La hatta della nuova guerriglia Palestinese evoca e produce il ricordo di un momento in cui tutti I Palestinesi – rurali e cittadini, Musulmani e Cristiani, ricchi e poveri – si muovevano, senza distinzioni, in un’azione collettiva. Molti veterani della rivolta del ’36 hanno riferito divertenti aneddoti riguardo al modo di indossare la kufiya contadina da parte dei ricchi cittadini di Jaffa o Gerusalemme. Non essendo abituati a portarla, non sapevano come fare per tenerla ferma sul capo, e non di rado veniva fatta qualche imprecazione quando la kufiya cadeva su una tazza di te’ o si intingeva in un piattino d’olio d’oliva. Molti giovani Palestinesi, uomini e donne – nei villaggi e in citta’ – indossavano la kufiya, ma avvolta attorno al collo come una sciarpa piu’ che come copricapo, come segno di identita’ nazionale e di attivismo.

Mentre I leaders e I negoziatori Palestinesi simultaneamente attivizzavano e mutavano l’immagine della kufiya, essa rimaneva inalterata nella deprimente realta’ dei Territori Occupati. I giovani attivisti dell’intifada che nascondono I loro visi nelle kufiye per celare le loro identita’ durante il quotidiano confronto con I soldati Israeliani, sono chiamati al-mulatthamin, i mascherati. Nell’estate del 1989, l’esercito Israeliano dispiego’ la sua polizia armata e dichiaro’ che tutti coloro che erano cosi’ mascherati erano sparabili a vista. Da allora, molti uomini sono stati uccisi per essere “mascherati” con una kufiya, inclusi coloro che la indossavano semplicemente per ripararsi dal freddo o dalla pioggia. Quando I shabab (giovani) mascherati hanno cominciato ad essere colpiti a morte, le donne della West Bank che indossavano la kufiya come simbolo di nazionalismo, ritornarono al meno pericoloso “copricapo di Betlemme”. Ma altri sono caduti durante la campagna contro I mulatthamin. Nel dicembre 1992, tre guardie di frontiera Israeliane furono ferite in uno scontro a fuoco tra due differenti “squadre speciali” Israeliane operanti in un villaggio presso Jenin. Sia I soldati che I poliziotti indossavano vestiti Palestinesi (incluso la kufiya). Piu’ recentemente e’ stato rivelato che l’esercito Israeliano incontra delle difficolta’ nel reclutare uomini per le sue “squadre speciali”, a causa della loro crescente reputazione di “squadroni della morte”.

Cattive ragazze

Facendosi largo tra le colline, un convoglio di civili Ebrei, accompagnato da guardie armate, fu sottoposto ad un attacco condotto con lanci di pietre. Le truppe entrarono nel vicino villaggio e portarono via tre sospetti. Alcune donne cominciarono a lanciare sassi contro I poliziotti ed uno rimase seriamente ferito. Questi aprirono il fuoco contro le donne per spingerle alla fuga e una “pallottola vagante” feri’ a morte una ragazza Palestinese di sedici anni. Secondo il governo ufficiale, la ragazza era“una poco di buono” e la sua morte “fu ritenuta da molti una buona punizione”.

L’incidente descritto avvenne nel villaggio della Galilea di Kafr Kanna – la biblica Cana, in cui Gesu’ trasformo’ l’acqua in vino – durante I primi giorni della rivolta (maggio 1936). Esso suggerisce nascoste connessioni tra la thawra (la rivolta) e l’intifada. La piu’ ovvia e’ il lancio delle pietre. Innumerevoli canzoni popolari e poesie sono state composte in onore degli awlad al-ahjar (I ragazzi delle pietre), centinaia dei quali sono stati uccisi o feriti nel loro impari confronto coi soldati Israeliani. L’episodio mi fa rammentare di come incredibilmente rocciose mi apparvero le colline della Galilea e della West Bank quando le vidi per la prima volta, nel 1962. Un pubblico ufficiale Britannico, ripensando alle difficolta’ che dovette affrontare a causa dei giovani Palestinesi durante la rivolta del 1936-39, affermo’ che “gli Arabi, per qualche ragione, sanno lanciare le pietre meglio di chiunque altro al mondo. Raramente mancano il bersaglio”.

Cosa piu’ importante, l’episodio fornisce una rara immagine delle donne come attori, protagoniste e martiri nella prima lotta di liberazione nazionale. Nell’autunno del 1988 riscoprii l’aneddoto di Kafr Kanna tra I miei appunti. Durante il primo mese di quell’anno avevo avuto la testimonianza, attraverso le immagini televisive notturne, dell’attivismo delle donne nei Territori Occupati, che manifestavano, affrontavano I soldati e lanciavano pietre. Alcuni osservatori affermavano che tali attivita’ dimostravano che le donne Palestinesi erano “partner uguali dell’uomo”.

Uno sguardo agli archivi Britannici ed a fonti secondarie da’ l’impressione che le protagoniste femminili dell’insurrezioni furono I membri della Arab Women’s Committee (AWC). Formatasi all’inizio delle violenze, nel 1929, l’AWC stabiliva che lo scopo del Comitato era avanzare la causa dell’uguaglianza femminile all’interno del movimento nazionale Palestinese. Una fotografia dei primi anni trenta mostra una delegazione dell’AWC in posa fuori della residenza di Gerusalemme dell’alto commissario, sfoggiando una array di teste coperte. I membri Cristiani della delegazione esibiscono cappellini di stile occidentale, mentre I membri Musulmani dell’AWC sono variamente avvolte in veli neri (manadil o hujub) che le coprono I capelli, leggeri o pesanti. In generale, questo “rispettabile” eppure elegante vestiario testimil back-ground della classe sociale delle donne: molte leaders dell’AWC appartenevano a famiglie di ceto elevato ed erano sposate o parenti di importanti figure nazionaliste. Sayigh nota, tuttavia, che non tutti I membri dell’AWC appartenevano a tali famiglie e che, comunque, il loro ceto sociale elevato non impedi’ loro di intraprendere azioni militanti ed innovative. Quando il generale Allenby, ad esempio, visito’ Gerusalemme nell’aprile 1932, l’AWC organizzo’ una drammatica protesta, nel corso della quale una militante Cristiana arringo’ la folla dal pulpito della Moschea di Omar, e una militante Musulmana prese la parola dalla vicina Chiesa del Santo Sepolcro. I membri dell’AWC sostennero un ruolo fondamentale anche nell’insurrezione nazionalista dell’ottobre 1933, marciando al fianco degli uomini nelle manifestazioni cittadine ed arringando le folle. Fonti ufficiali Britanniche affermarono che I disordini del 13 ottobre furono istigati da donne velate che incoraggiarono I protestatari a lanciare pietre contro la polizia. I rapporti governativi allo stesso modo asserirono che I disordini del 27 ottobre a Jaffa furono incitati da “signore Arabe” di Gerusalemme che parlarono alle adunate. I commenti dell’alto commissario riguardo ai fatti di Gerusalemme indicano le preoccupazioni del governo per l’attivismo femminile: “Una nuova ed inquietante caratteristica dei disordini e’ il ruolo prominente svolto dalle donne di buona famiglia come pure dalle altre…Esse non hanno esitato ad unirsi durante gli assalti alla Polizia ai loro compagni uomini a cui hanno chiesto, risolutamente, sforzi maggiori”. Allo stesso tempo, il leader Sionista Laburista Moshe Shertok osservava, in privato, che la militanza di queste donne testimoniava una nuova profondita’ del sentimento nazionalistico Arabo.

Quando, nell’aprile 1936, fu fondata l’Alta Commissione Araba (ACA) per controllare e guidare lo sciopero nazionale e l’insurrezione, nessuna donna fu selezionata per servire questo corpo. All’AWC ed alle donne in genere furono assegnati invece ruoli ausiliari. Ma, nonostante la posizione subordinata, le donne furono vigorose. Gli archivi dell’Ufficio Coloniale conservano le registrazioni delle frequenti proteste fatte all’alto commissario – per voce e per lettera – per denunciare le azioni repressive delle forze Britanniche: demolizioni di case, vessazioni dei sospettati, torture dei prigionieri, deportazioni, confisca delle abitazioni, detenzioni amministrative, esecuzioni sommarie e altro. E’ in gran parte merito di questa corrispondenza che oggi esiste una documentazione circa gli abusi commessi dai Britannici, un argomento, questo, a cui non e’ mai stata data sufficiente attenzione. L’AWC, inoltre, si occupava di raccogliere denaro e non di rado I suoi membri donavano I propri gioielli per supportare la resistenza, amministravano I fondi raccolti per sostenere le famiglie dei prigionieri e delle vittime Palestinesi delle ostilita’. L’associazione si occupo’ anche di mobilitare la solidarieta’ internazionale. In particolare, l’Unione delle Femministe Egiziane (EFU), guidata da Huda Sha’rawi, si occupo’ di sostenere le donne Palestinesi e la loro lotta di liberazione nazionale. L’EFU avanzo’ proteste alle autorita’ Britanniche e, nell’ottobre 1938, organizzo’ la Conferenza delle Donne Arabe per la Palestina, a cui parteciparono delegate dalla Palestina, Egitto, Iraq, Libano ed Iran.

Il ramo piu’ attivo dell’AWC si trovava ad Haifa, la citta’ piu’ industrializzata della Palestina e la figura simbolo di tale attivismo fu Sadij Nassar, moglie dell’editore-proprietario del giornale Al-Karmil, Najib Nassar, e giornalista professionista ella stessa. Il nome della donna compare molte volte negli archivi Britannici, come organizzatrice e partecipante alle dimostrazioni di piazza e come promotrice dello sciopero nazionale. Nel 1939 il governo mandatario la condanno’ alla detenzione amministrativa (senza accuse formali o processo) per nove mesi : fu la prima donna Palestinese ad essere detenuta, durante la rivolta, per tanto tempo. Le autorita’ affermarono che gli articoli di Sadij erano “incendiari”, e le marce da lei organizzate “le piu’ virulente e pericolose”.

In generale, pero’, le donne appartenenti a classi sociali elevate o medie avevano minore liberta’ di movimento rispetto alle loro sorelle dei ceti contadini e, se Musulmane, dovevano indossare il velo. (Naturalmente vi erano significative variazioni regionali e familiari; le citta’ costiere di Jaffa ed Haifa erano, generalmente, piu’ “ liberali” di Nablus e Gerusalemme). Il velo, in effetti, era ancora considerato simbolo di ceto sociale elevato e rispettabilita’. Per contrasto, le donne rurali avevano maggiore campo d’azione e di solito non si velavano. Esse erano ancora piu’ coinvolte nella ribellione armata rispetto alle sorelle cittadine, in particolare fornendo cibo ed acqua, oltreche’ sostegno morale e materiale ai combattenti. Quando il comando della rivolta ordino’ agli uomini di bandire il tarbush in favore della kufiya, allo stesso modo fu richiesto alle donne Palestinesi di non imitare lo stile occidentale nel vestiario e di bandire I cappellini, in favore dei tipici foulards Palestinesi. Un articolo del Times datato 5 ottobre 1938 annuncia che: “Le donne Cristiane hanno raccolto l’invito ed hanno abbandonato I cappellini Europei per il fazzoletto Orientale (mandil o hijab).” La fotografia di un gruppo di donne Palestinesi Cristiane, datata probabilmente allo stesso periodo, testimonia il cambiamento: sebbene ancora vestite con abiti “Europei” e con tacchi alti, hanno la testa coperta con fazzoletti neri (manadil) che, secondo Graham-Brown, simboleggiano la loro “fedelta’ al movimento nazionalista”.











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Posted - 13 September 2003 :  21:17:34  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando



La fanciulla e l'orco

di Israel Shamir

Fanciulle nobili e coraggiose sono ancora tra noi.
Hanno fermato i treni dell'esercito USA durante la
guerra in Vietnam, i carriarmati russi a Praga nel
1968 e a Mosca nel 1991. I guidatori dei treni
e dei carriarmati francesi, russi, americani e
tedeschi lo sapevano: persino un mostro si ferma
quando un'esile fanciulla si pone sulla sua strada.

Un mostro spaventoso assale la citta', ne uccide i coraggiosi difensori ed avanza per divorarne i cittadini. All'ultimo momento, una giovane fanciulla avanza con ritrosia per incontrarlo. La sua vista, la vista dell' innocenza feminea, con la sua vulnerabilita', spiritualita', certezza della giusta causa, ferma l'orco sui suoi passi. La bestia permette che lei gli leghi la cintura al potente collo e va via, domato. E' la storia di Santa Genoveffa e di altre sante belle e virtuose; un frammento dell'eredita' umana, soggetto di meravigliosi dipinti ed arazzi.

Fanciulle nobili e coraggiose sono ancora tra noi. Hanno fermato i treni dell'esercito USA durante la guerra in Vietnam, i carriarmati russi a Praga nel 1968 e a Mosca nel 1991. I guidatori dei treni e dei carriarmati francesi, russi, americani e tedeschi lo sapevano: persino un mostro si ferma quando un'esile fanciulla si pone sulla sua strada. E' una legge biologica a cui tutti siamo soggetti.


Rachel Corrie fu assassinata dal mostro di un'altra storia. Questa giovane americana, un'attivista dell'ISM, cerco' di fermare, con il suo fragile corpo, un bulldozer sionista pronto ad abbattere case palestinesi. Non avrebbe mai immaginato che il guidatore, dopo averla vista, avrebbe scatenato con calma la potente macchina d'acciaio di dieci tonnellate sul suo corpo, avanti e indietro. Niente della sua vita l'aveva preparata all'incontro con un mostro nato e cresciuto nei laboratori sionisti, un mostro totalmente alieno ed ostile al genere umano. Scrisse ai genitori: "Nessuna lettura, conferenza o documentario, nessuna parola, avrebbe potuto prepararmi alla realta' della situazione, qui. Non si puo' immaginare fino a che non si vedano i buchi dei missili sui muri delle loro case e le torrette di un esercito d'occupazione che li controlla costantemente dall'orizzonte".

Sebbene avesse visto i cadaveri dei bambini palestinesi con le teste frantumate dai colpi dei sionisti, nutriva ancora l'illusione che "l'esercito israeliano avrebbe avuto grosse difficolta' se avesse sparato contro un cittadino americano disarmato". Era in errore. Il presidente del suo paese ha mandato un esercito a distruggere l'Iraq per trasformare gli assassini di Rachel nella potenza suprema, senza rivali, in Medioriente. Se Bush fosse guidato da interessi americani, chiederebbe l'estradizione degli assassini di Rachel. Ma il guidatore non e' il solo colpevole. La gente in giubbotto anti-proiettile dietro lo schermo del Caterpillar e' il prodotto finale del sionismo. All'inizio del movimento sionista, il suo compito eugenetico fu espresso nel poema:

Mi dam umi eza Nakim lanu geza’ - con il sangue ed il sudore creeremo una nuova razza, crudele e vittoriosa", cantavano i sionisti. Con l'assassinio di Rachel Corrie l'esperimento e' giunto a compimento. La "razza crudele" non e' piu' un sogno, ma una realta' geopolitica. Qualche mese fa, il guidatore di un bulldozer a Jenin condivise col mondo la sua esperienza nell'aver raso al suolo Jenin:

"Non avevo pieta' per nessuno. Avrei seppellito chiunque col D-9, e ho demolito dozzine di case. Volevo distruggere tutto. Ho chiesto agli ufficiali, attraverso la radio, di farmi distruggere tutto, da cima a fondo. Di livellarlo. Quando mi veniva detto di buttar giu' una casa, afferravo l'occasione di buttarne giu' altre. Per tre giorni, ho distrutto e ancora distrutto. Tutta la zona. Volevo arrivare alle altre case, farmene il piu' possibile. Non vedevo, con i miei occhi, le persone morire sotto le pale del D-9. Ma se le avessi viste, non me ne sarebbe importato. Se butti giu' una casa, seppellisci 40-50 persone. Se mi dispiace di qualcosa, e' di non aver buttato giu' tutto il campo. Mi sono preso molte soddisfazioni a Jenin, molte soddisfazioni. Nessuno ha espresso riserve su cio'. Chi oserebbe parlare? Se qualcuno avesse osato, lo avrei seppellito sotto il mio D-9".
Rachel
La terribile morte di Rachel dovrebbe aprire gli occhi dell'America sul vero pericolo per il mondo che sta crescendo in Medioriente. Gli assassini di Rachel possiedono armi nucleari, non solo bulldozers. Se Bush tiene tanto alla rimozione delle armi di sterminio di massa, le sue truppe dovrebbero atterrare li', sulle rive di al-Rafah, dove c'e' la vera minaccia alla pace mondiale, ed eliminare con la forza l'arsenale di morte israeliano.



P.S. Un'amica di Rachel, Susan Barclay, dell'ISM, e' stata deportata negli USA qualche giorno fa dal regime di Sharon, ed ora gira per gli Stati Uniti per raccontare la tragedia palestinese. Puo' essere contattata a stbarclay@yahoo.com






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Posted - 13 September 2003 :  21:47:44  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando


Riposa in pace, Rachel





Non Rachel, ma la comunita' internazionale
avrebbe dovuto impedire all'esercito del diavolo
di fare cio' che sta facendo in Palestina, da molti, molti anni...






E' responsabilita' delle Alte Parti Contraenti assicurare che Israele rispetti la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, relativa alla Protezione dei civili in tempo di guerra.
La parte IV, sezione I, articolo 142 della Convenzione stabilisce che "i rappresentanti di organizzazioni religiose, societa' umanitarie o qualsiasi altra organizzazione si occupi di assistere le persone protette, riceveranno da queste Potenze, per se' stesse e per i loro agenti accreditati, ogni agevolazione per visitare le suddette persone, per distribuire beni di soccorso e materiale di qualsiasi genere, educativo, ricreativo e religioso, o per assisterle organizzandone gli svaghi nei luoghi di internamento".

E' scoraggiante vedere come la legge internazionale venga abusata da chi, interpretando in maniera "selettiva" la legge che governa il nostro mondo, l'ha resa irrilevante molto tempo fa.
Il riferimento della Quarta Convenzione di Ginevra, che resta la piu' importante struttura di riferimento in tempo di guerra e che, in gran parte, tratta delle responsabilita' delle potenze occupanti, non ha alcun significato per gli USA, dal momento che il piu' sfacciato violatore di tale legge e' lo stato d'Israele.


Israele ha violato una lunga lista di risoluzioni ONU, sia del Consiglio di Sicurezza che dell'Assemblea Generale ed il veto americano arrivava ogni volta, puntuale, a salvare Israele dall'adempire ai suoi doveri di fronte alla legge internazionale. In effetti, la legittimita' di Israele come membro della comunita' internazionale non e' mai stata ottenuta poiche' lo stato d'Israele era un membro "condizionato", la cui effettiva partecipazione al consesso delle nazioni era condizionata al rispetto delle risoluzioni 181 e 194, entrambe le quali sono lettera morta a tutt'oggi.

Naturalmente le azioni quotidiane dell'esercito e del governo israeliano sono ottimi promemoria del fallimento della cosiddetta comunita' internazionale nel far rispettare i suoi principii, ed indicatori altrettanto ottimi della violazione continua della legge internazionale. Oggi, un promemoria piu' forte riuscira', senza dubbio, a catturare l'attenzione di molti.

Domenica 16 marzo 2003, Rachel Corrie, una dolce ragazza americana di 23 anni, e' stata investita da un bulldozer israeliano e sepolta tra i detriti nel campo profughi di Rafah, a sud di Gaza City.
Rachel, di Olympia, nello stato di Washington, e' resistita in piedi dinanzi ad un bulldozer israeliano mentre questo cercava di demolire l'abitazione di una "persona protetta" poiche' nessuno, se non Rachel ed un pugno di suoi colleghi attivisti, ha mai osato sfidare l'esercito israeliano. C'e' una tragica ironia nella sua drammatica morte. Rachel non avrebbe dovuto essere in Palestina: avrebbe dovuto essere a casa, a studiare per gli esami. Sono le Nazioni Unite che avrebbero dovuto bloccare i bulldozers israeliani, poiche' esse sono l'istituzione designata a proteggere i profughi. La morte di Rachel non solo riflette la profondita' della sua umanita', ma riflette anche il tremendo fallimento delle Nazioni Unite, o forse la loro indifferenza, nei confronti di questo compito cruciale.

Non credo che Rachel stesse pensando alle Convenzioni di Ginevra o avesse in mente una particolare risoluzione ONU quando si e' seduta a terra di fronte ad un bulldozer israeliano, e prima che l'autista la seppellisse sotto una montagna di sabbia e la schiacciasse, nonostante le urla della gente di fermarsi. Posso solo immaginare la rabbia che aveva scosso il giovane corpo allorche' aveva deciso di usare la sua persona come scudo tra il bulldozer dell'esercito ed una casa di profughi palestinesi.

"Rachel era sola di fronte alla casa mentre noi chiedevamo che si fermassero", ha rivelato all'Associated Press Greg Schnabel, 28 anni, di Chicago. "Lei faceva cenni con la mano al bulldozer affinche' si fermasse. Poi e' caduta ed il bulldozer ha continuato ad avanzare. Noi urlavamo "stop, fermo", ma lui non si e' fermato affatto. L'ha completamente travolta, poi e' tornato indietro ed e' nuovamente passato sul suo corpo", ha detto.

Sebbene tragico, l'assassinio non e' occasionale. Proprio di recente, un cecchino israeliano a Jenin colpi' a morte Ian Hook, un coordinatore delle Nazioni Unite inviato nel campo profughi per dare aiuto alla popolazione civile palestinese dopo la storica invasione del campo nell'aprile dello scorso anno. Israele dichiaro' che sembrava che Hook avesse una pistola in mano e non un cellulare. Cio' che non ha saputo spiegare pero' e' perche' Hook fu lasciato sanguinare a morte mentre i suoi colleghi palestinesi tentavano di salvargli la vita. Mi chiedo come questa volta Israele spieghera' ai media sempre compiacenti la morte di Rachel. Forse il suo fragile corpo rappresentava un pericolo per la sicurezza dell'esercito israeliano? O si e' trattato di un altro "onesto errore"?

Mentre 200.000 americani e 50.000 britannici sono pronti ad invadere l'Iraq, senza chiedersi come tale invasione sia interpretata dalla legge internazionale, gente come noi, studenti, padri e madri di tutto il mondo si riversano nei Territori occupati per fornire protezione al popolo palestinese. Come quello di Rachel, anche i loro corpi sono le uniche munizioni di fronte ai mostruosi carriarmati Merkava ed ai bulldozers D-9. Sono sconvolti, come molti di noi, dall'angosciante ipocrisia statunitense e dal fallimento delle "Alte Parti Contraenti" nel far rispettare le leggi che hanno emanato e le risoluzioni per le quali hanno votato.

E' stato detto molto sulla brutalita' di un esercito che non si cura di seppellire vivo un uomo paralitico a Jenin o una giovane donna che pacificamente protestava contro la demolizione illegale di una casa, e non solo dai palestinesi, ma anche da quegli stupefacenti esseri umani che letteralmente sacrificano le loro vite per il bene di un altro popolo, dimenticato dalla comunita' internazionale e ritenuto "irrilevante" quando le leggi vengono implementate.

Mi dispiace, Rachel, che tu abbia dovuto morire cosi'; il tuo urlo sugli schermi della televisione al-Jazeera mi ha spezzato il cuore, come lo ha spezzato a molti. Non sono pero' in collera con il guidatore del bulldozer, un criminale di guerra secondo qualsiasi legge, ma con il tuo governo, che ha fornito ad Israele le armi e la copertura politica per uccidere te e migliaia di altri innocenti.


Oggi, Rachel, il nostro sangue e' unito; hai resistito e sei caduta difendendo cio' che e' giusto e nobile. Forse non potremo darti l'onore e la gratitudine che meriti, ma, Rachel, sono certo che ogni palestinese ed ogni essere umano con un'anima, ti rendera' omaggio e ti ricordera' come una martire per la Palestina libera. Riposa in pace.






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Posted - 13 September 2003 :  22:00:48  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando



"Le tattiche dell'IDF sono state formulate negli anni
'30: "Non devi ucciderne un milione. Uccidine i migliori,
ed il resto sara' domato". Questo metodo fu gia'
applicato dagli Inglesi con l'aiuto dei loro alleati
ebrei durante la rivolta palestinese del 1936. Da
allora, migliaia dei migliori figli e figlie di questa
terra, la potenziale elite dei palestinesi, sono stati
sterminati. Ancora una volta, l'esercito israeliano
viene usato per realizzare lo stesso piano, "per
domare i nativi indocili", sparando di norma ai potenziali ribelli". (ISRAEL SHAMIR)




Pietre della Liberta'


di Nezar Qabbani





Con le pietre nelle mani

sfidano il mondo

e tornano a noi come dolci maree.

Bruciano di rabbia ed amore, e cadono,

mentre noi restiamo come un branco di orsi polari:

un corpo equipaggiato contro le intemperie.

Come mitili sediamo nei caffe',

chi cerca un affare

chi un altro miliardo

e chi una nuova moglie

e petti educati dalla civilizzazione.

Chi gira Londra, alla ricerca di un palazzo elevato,

chi traffica in armi,

chi cerca vendetta in un nightclub,

o complotta per un trono, un esercito privato,

un principato.

Ah, generazione di tradimento,

di indecenti surrogati di uomini,

generazione di avanzi,

saremo spazzati via -

non importa quanto lento sia il cammino della storia -

dai bambini che lanciano le pietre.





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