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Nafas
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Posted - 15 February 2006 : 18:31:16
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SALAM HALEICUM PER SEMPRE ALLA ETERNA PALESTINA INSCIA'LLA SEPRE(ALLA AHBAR) SENZA PERO'ESSERE FANATICIHEHEHEH GIUSTO ..........
NAFAS |
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janet
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Posted - 03 April 2006 : 02:05:16
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AS-SALAAM ' ALAIKUM Welcome to Palestine, the cradle of Civilization, where West meets East, North meets South and where Judaism, Christianity and Islam took form. We welcome you in Palestine and hope that you enjoy our cultural richness, deeply compelling history and legendary hospitality.
Over the centuries millions of people have come to visit this beautiful Holy Land and we are glad to welcome you among them.
May your stay in Palestine be filled with joyful days, nights and a lifetime of wonderful memories.
AHLAN WA-SAHLAN
Un cuore non può bastare per due. Nulla è cambiato tranne il mio atteggiamento, così... tutto è cambiato. |
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janet
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Posted - 26 May 2006 : 23:41:13
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Intervista a Mahmoud Darwish di Cecilia Zecchinelli *
È sopravvissuto a una difficile operazione al cuore. Dall’incontro sfiorato con la morte («l’esiliata, l’infelice, la potente») è nata l’elegia «Judariya » , Murale , il suo ventesimo libro pubblicato in Italia da Epochè nella bella traduzione di Fawzi Al Delmi. È sopravvissuto a lunghi anni di esilio e di assenza dall’«Eden perduto», la Palestina da cui è fuggito bambino una notte del 1948. Poi all’assedio di Ramallah dove vive dal 1996. Soprattutto, è sopravvissuto a quell’ingombrante cliché di «poeta della resistenza palestinese» che dagli Anni Sessanta - Carta d’identità circolava in milioni di cassette, i suoi versi erano cantati dal libanese Marcel Khalifeh, Bob Dylan del Medio Oriente - l’accompagna e gli sta sempre più stretto. Mahmoud Darwish, 64 anni, è il poeta vivente più letto nel mondo arabo, il più ascoltato nei reading che ancora attirano migliaia di persone. Uno dei più conosciuti e premiati all’estero e perfino in Italia, che finora lo ha tradotto ben poco mantenendo così in vita quel ricordo-cliché di eterno militante. «Molto è cambiato, io sono cambiato. La poesia direttamente politica come quella dei miei 20 anni è legata agli eventi, destinata a passare con loro. Ora i miei versi sono più umani, più universali», dice Darwish nella meravigliosa Santa Maria della Scala di Siena, l’ex ospedale medievale dove Calvino morì nel 1985, oggi riservato a rari eventi culturali. Come la lettura serale di Judariya-Murale , in arabo con la voce calda e tranquilla di Darwish, in italiano con quella appassionata di Sandro Lombardi. «Sono versi più difficili ma sono fortunato: oggi moltissimi miei lettori sono giovani. Io sviluppo il loro gusto, loro la mia lingua. Con loro appartengo al futuro. Mi danno speranza che la mia voce non vada perduta». Una voce rigorosamente in lingua classica, che resiste in un mondo dove Al Jazeera , le canzoncine pop di Nancy Ajram o nel migliore dei casi i romanzi (genere «nuovo») hanno preso il posto di Imr Al Qais e Al Mutanabbi. «Ormai non siamo più il popolo della parola in rima, la poesia è in crisi anche da noi, relegata in stanze molto private tranne poche eccezioni», ammette Darwish. Lui stesso ha scelto spesso la prosa (tradotta in italiano solo con Memoria per l’oblio , Jouvence, 1996). «Anche il mio ultimo libro, ancora senza titolo - anticipa - è in prosa. È un addio a me stesso, il discorso che nessuno altro dovrà fare sulla mia tomba, una sorta di autobiografia». Ma anche se «chi scrive solo poesia non appartiene più al nostro tempo», Darwish è nei versi - liberi, musicali, densi di metafore e simboli - che più si ritrova. «Il mio progetto poetico non è finito, penso di poter ancora sviluppare la poesia araba moderna». E la lingua. «Io voglio, voglio vivere - urla alla morte e ai medici in Murale - Lasciate tutto com’è e riportate in vita la mia lingua. Non voglio tornare a nessuno, non voglio tornare a nessun Paese dopo questa lunga assenza. Voglio soltanto tornare alla mia lingua». Lingua come identità, poesia come essenza. E non solo per lui, palestinese nato in un villaggio che non esiste più, nomade suo malgrado. «Da quando ho iniziato a vedere il mondo sento dire che stiamo vivendo il peggior momento della storia degli arabi, ma ogni giorno è più nero. Noi arabi abbiamo il diritto di sentirci fuori dalla storia, a cui cerchiamo di tornare senza successo anche perché divisi», dice amaro Darwish. Morto il panarabismo di Nasser, rifiutato da molti perché laici o cristiani il fattore unificante dell’Islam, «la lingua resta l’unico elemento comune, tutto il resto è andato distrutto. Da qui dobbiamo partire per ricostruire il futuro, se riusciremo a trovare un progetto culturale avremo fatto il primo passo». Basta politica, allora? Gli anni di Darwish poeta-resistente e membro del comitato esecutivo dell’Olp sono davvero svaniti? «Non sono mai stato un politico, nel 1987 quando ho saputo della mia elezione ai vertici dell’Olp ho pianto. Gli accordi di Oslo del 1993 mi hanno dato l’occasione di dimettermi». Ma questo, precisa, non per richiudersi in un mondo a parte. Una scelta impossibile «perché la nostra terra resta occupata, il mio popolo sotto assedio». E allora, invece della militanza impostagli in passato dalla sua gente, la scelta di Darwish è la poesia di resistenza a cui lo obbliga ancora la Storia. «Ogni buona poesia che parla di libertà e amore, giustizia e bellezza è una forma di resistenza, contro la bruttezza e la violenza, contro l’annientamento. E costruisce nuovi ponti con gli altri». Più universale rispetto al passato ma ricca degli stessi «semi»: l’assenza, l’oppressione, la sofferenza, l’esilio, la prigione, l’identità. Il dialogo tra esilio e patria. La disperata voglia di amore e di pace. «Da quando abbiamo realizzato che questo Paese va diviso in due, la pace è diventata possibile. Ogni palestinese sente che la Palestina storica è la sua patria ma tutti sappiamo che ormai appartiene a due popoli - dice Darwish, che nel 1988 scrisse la dichiarazione di Algeri con cui l’Olp accettava i due Stati -. Ma oggi la pace sta diventando impossibile perché Israele rifiuta di negoziare i confini, il futuro di Gerusalemme, il diritto al ritorno degli esuli, costruisce muri e cantoni. Israele aveva l’opportunità d’oro d’essere accettata, l’ha persa. Magari non tornerà più, presto governeranno in molti Paesi i movimenti islamici». Come Hamas? «Sì, come Hamas, eletta peraltro democraticamente con un voto di disperazione, che sta già punendo gli stessi palestinesi. E con risultati negativi che non si sono ancora visti ma che io, laico e marxista in un mondo di religioni, temo molto per la nostra cultura». Parla ancora di molte cose Darwish. Della crisi degli intellettuali arabi e della mancanza di democrazia nei loro Paesi. Degli elementi comuni tra le tre grandi religioni la cui ricerca «lo ossessiona». Dei poeti che più ama (da Dante a Eschilo, da Walcott a Ritsos). Della Palestina, ovviamente. «Adesso tornerò a Ramallah, non posso preferire l’esilio potendo tornare nella mia terra - conclude -. Solo quando sarà liberata anch’io sarò libero di andare dove voglio». Succederà? La speranza che emerge dalle sue poesie con quella «terra verde» così ricorrente è vera? «La speranza è lontanissima, nel presente non c’è. Ma dobbiamo inventarla altrimenti siamo morti», risponde. E nel frattempo continuerà a scrivere, soprattutto poesia. «Quando ero sotto assedio a Ramallah, quando ho visto i tank israeliani sotto le mie finestre, ho scritto. A ogni verso mi sembrava che i soldati si ritirassero di 10 metri - ricorda -. È il solo modo che conosco per proteggere il mio spirito. Per sopravvivere».
* Dal "Corriere della Sera" del 23 maggio
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janet
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Posted - 26 May 2006 : 23:52:52
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Il Nuovo piano israeliano : un furto di terra di Jimmy Carter
Il nuovo Primo Ministro Ehud Olmert ha annunciato che Israele provvederà, sulla base di azioni unilaterali, a stabilire i propri confini geografici nei prossimi quattro anni della sua amministrazione. Il suo piano, così come proposto durante le recenti elezioni israeliane e la formazione della nuova coalizione di governo, si impossesserebbe all’incirca di metà della Cisgiordania e intrappolerebbe le aree urbane in un mastodontico muro, mentre le zone maggiormente rurali della Palestina rimarrebbero dietro un'ulteriore barriera protetta. La barriera non è stata localizzata sui confini tra Israele e Palestina, riconosciuti a livello internazionale, ma si trova completamente dentro e profondamente all’interno dei territori occupati.
L’unica divisione del territorio tra Israele ed i palestinesi riconosciuta dagli USA o dalla comunità internazionale riguarda il 77% della terra, che è in mano alla nazione di Israele, mentre l’altra piccola porzione è divisa tra la Cisgiordania e Gaza. Quest’ultima non è che il doppio della grandezza di Washington D.C. Gaza è oggi una regione non sostenibile economica e politicamente, quasi completamente isolata dalla Cisgiordania, da Israele e dal resto del mondo.
La Cisgiordania sezionata
Il piano di Olmert lascerebbe con le stesse inaccettabili caratteristiche, ciò che resta della Cisgiordania palestinese. Continuerebbero le profonde intrusioni nei territori, che effettivamente rimarrebbero divisi in tre porzioni. Il primo ministro ha inoltre annunciato che i soldati israeliani rimarrebbero comunque nei territori palestinesi; questi ultimi si troverebbero completamente circondati dal controllo israeliano nei suoi confini ad Est, nella valle del Giordano.
E’ inconcepibile che qualsiasi palestinese, leader arabo o membro oggettivo della comunità internazionale possa accettare questa azione illegale come soluzione permanente dei continui scontri in Medioriente. Questa confisca di terra vuole essere portata avanti senza intraprendere negoziati di pace con i palestinesi, e viola chiaramente la “Road Map for Peace”, che il presidente Bush ha aiutato ad iniziare e che ha fortemente sostenuto.
Nonostante l’ex primo ministro Ariel Sharon e il governo israeliano abbia rigettato i punti chiave della Road Map così come proposti dal quartetto di negoziatori – USA, Unione Europea, Nazioni Unite, Russia – sono stati invece inequivocabilmente accettati dal moderato presidente palestinese Mahmoud Abbas.
Il governo israeliano ha adottato cautamente gli accordi negoziati a Camp David nel 1978 e ad Oslo nel 1993. I leader israeliani Menachem Begin, Yitzhak Rabin and Shimon Peres hanno ricevuto il premio Nobel per la pace per questi importanti passi verso la pace, insieme alle loro controparti arabe. Anche i termini alla base di questi due accordi storici verrebbero violati dal piano di Olmert, così come violerebbe tutte le risoluzioni del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite su cui gli accordi si basano e sulle quali la Nazioni di Israele è stata fondata.
Qual è l’alternativa a questa folle movimento verso la confisca unilaterale e la colonizzazione della maggior parte della Cisgiordania?
Una via migliore
Le negoziazioni, quelle in buona fede, dovrebbero iniziare sotto l’auspicio del quartetto internazionale con il presidente Abbas. Durante i recenti giorni, Abbas ha girato per le capitali internazionali sottolineando l’opportunità di trovare un sentiero di pace permanente nella terra santa. Anche se i neo-eletti legislatori di Hamas non riconosceranno o non negozieranno con Israele, finche la terra palestinese continua ad essere occupata, il primo ministro di Hamas, Ismail Haniyeh, ha espresso la sua approvazione per i colloqui di pace bilaterali tra Abbas e Olmert. Ha detto “il problema non è la parte palestinese o il suo consenso ai negoziati …se il capo dell’Autorità (palestinese), come presidente eletto, vuol far si che i negoziati si muovano, noi non poniamo nessuna obbiezione. Se i risultati che Abu Mazen presenterà alla gente, servirà gli interessi delle persone, noi ridefiniremo le nostre posizioni.”
Presumibilmente, questi negoziati saranno monitorati e orchestrati dagli USA, e qualsiasi negoziato di successo in termini della Road Map sarebbero conseguentemente approvati sia da Israele che dai palestinesi. Questo tipo di approvazione relativo a un accordo finale di pace fu un importante punto negli Accordi Camp David.
Sarebbe uno sbaglio sottostimare le difficoltà nel trovare un mutuo accordo accettabile per entrambe le parti, ma molti rappresentanti israeliani, palestinesi e internazionali sono ormai a conoscenza dei risultati basici necessari che devono scaturire dai colloqui. Ciò include compromessi ragionevoli sui confini basati sullo scambio della terra, e questo lascerebbe un numero sostanziale di coloni indisturbati sulla terra palestinese.
Un mutuo accordo tra israeliani e palestinesi dovrebbe risultare indubbiamente in un pieno riconoscimento di Israele da parte di tutte le nazioni arabe, con normali relazioni economiche e diplomatiche, e pace e giustizia permanente per i palestinesi.
Rimuoverebbero inoltre una delle maggiori cause del terrorismo internazionale e alleggerirebbe sostanzialmente le tensioni che rischiano di precipitare in un conflitto regionale o a dirittura globale.
Tratto da USA Today 15.05.06
Traduzione dall'inglese di Teresa Maisano
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janet
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Posted - 26 May 2006 : 23:59:30
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Ruth Schloss - I corvi
Una pace giusta o nessuna pace Ismail Haniyeh
Capita mai che i politici a Washington ed in Europa provino vergogna per il loro scandaloso sistema di due pesi e due misure?
Capita mai che i politici a Washington ed in Europa provino vergogna per il loro scandaloso sistema di due pesi e due misure? Prima e dopo le elezioni palestinesi in gennaio, hanno continuamente insistito che Hamas soddisfi certe esigenze. Essi vogliono che noi riconosciamo Israele, mettiamo fine alla resistenza, e ci impegniamo a rispettare qualunque accordo Israele e la leadership palestinese siglarono in passato.
Ma non abbiamo sentito alcuna richiesta per i partiti israeliani che hanno preso parte alle elezioni di questa settimana, sebbene alcuni sostengano il completo allontanamento dei Palestinesi dalle loro terre. Persino il partito Kadima di Ehud Olmert, i cui antenati del Likud frustrarono ogni sforzo dell'OLP a negoziare una pacifica sistemazione, ha fatto una campagna elettorale su un programma che sfida le risoluzioni del consigli di sicurezza dell'ONU. Il suo unilateralismo è una violazione del diritto internazionale. Nondimeno nessuno, neanche il Quartetto -- le cui proposte per una soluzione egli continua ad ignorare, come il suo predecessore Ariel Sharon -- ha avuto l'audacia di chiedergli qualcosa.
L'unilateralismo di Olmert è una ricetta per il conflitto. E' un piano per imporre una situazione permanente nella quale i Palestinesi finiscono con una patria tagliata a pezzettini, resa inaccessibile a causa dei massicci insediamenti israeliani costruiti contravvenendo al diritto internazionale su terra sequestrata illegalmente ai Palestinesi. Nessun piano funzionerà mai senza una garanzia, in cambio di una fine per le ostilità di entrambe le parti, di una completa ritirata israeliana dalla terra occupata nel 1967, compreso Gerusalemme Est; il rilascio di tutti i nostri prigionieri; l'allontanamento di tutti i coloni dagli insediamenti; e il riconoscimento del diritto di tutti i rifugiati al ritorno.
Su questo, tutte le fazioni palestinesi e il popolo concordano, compreso l'OLP, il cui risveglio è essenziale così che possa tornare al suo ruolo nel parlare per i Palestinesi e presentare la loro causa al mondo.
Il problema non è con qualsiasi particolare gruppo palestinese ma con il rifiuto dei nostri elementari diritti da parte di Israele. Noi di Hamas siamo per la pace e vogliamo mettere fine al bagno di sangue. Abbiamo osservato una tregua unilaterale per più di un anno senza reciprocità dal lato di Israele. Il messaggio da Hamas e dalla Autorità Palestinese al mondo è questo: non parlateci più di riconoscere il "diritto ad esistere" di Israele o mettere termine alla resistenza finché non otterrete un impegno da parte di Israele a ritirarsi dalla nostra terra e riconoscere i nostri diritti.
Cambierà poco per i Palestinesi sotto il piano di Olmert. La nostra terra sarà ancora occupata e il nostro popolo schiavizzato ed oppresso dalla potenza occupante. Così rimarremo impegnati nella nostra lotta per riavere indietro la nostra terra e la nostra libertà. I mezzi pacifici funzioneranno se il mondo ha voglia di darsi da fare in un equo e costruttivo processo nel quale noi e gli Israeliani siamo trattati come eguali. Siamo stanchi dell'approccio razzista dell'Occidente al conflitto, nel quale i Palestinesi sono considerati inferiori. Sebbene siamo noi le vittime, noi offriamo la nostra mano in segno di pace, ma solo una pace che sia basata sulla giustizia. Comunque, se gli israeliani continueranno ad attaccare ed uccidere la nostra gente e a distruggere le loro case, imporre sanzioni, punire collettivamente, ed imprigionare uomini e donne per esercitare il diritto di auto-difesa, noi abbiamo ogni diritto a rispondere con tutti i mezzi a disposizione.
Hamas è stata liberamente eletta. La nostra gente ci ha dato la sua fiducia e noi promettiamo di difendere i loro diritti e fare del nostro meglio per gestire i suoi affari attraverso il buon governo. Se siamo boicottati a dispetto di questa scelta democratica -- come è accaduto con gli USA ed alcuni dei suoi alleati -- noi persisteremo, e i nostri amici ci hanno promesso di colmare il vuoto. Abbiamo fiducia nei popoli del mondo, un numero record dei quali si identifica con la nostra lotta. Questo è un tempo buono per la pace -- se è la pace ciò che il mondo vuole.
2 Aprile, 2006 UK Guardian
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janet
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Posted - 01 July 2006 : 18:23:43
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"Caro Bashir,
ci siamo conosciuti 20 anni fa in circostanze insolite e impreviste. Adesso mi dicono che stanno per obbligarti all'esilio, accusato di terrorismo. Visto che sei in prigione, e che questa e' l'ultima occasione per comunicare con te, ho scelto di scriverti questa lettera sul giornale, affinche' tu possa leggerla. Dapprima voglio ricordare ancora una volta la nostra storia. Dopo la Guerra dei Sei Giorni sei venuto qui a Ramleh, insieme a due altre persone, a vedere la casa in cui sei nato. Quello e' stato il mio primo incontro con dei Palestinesi.
Io, con la mia famiglia, vivevo in quella casa dal 1948, proprio dal momento in cui la tua famiglia era stata obbligata ad andarsene - tu allora eri un bambino di sei anni, io avevo solo un anno.
Io e la mia famiglia eravamo venuti nello stato di Israele con altri cinquantamila ebrei bulgari e la tua casa, considerata "proprieta' abbandonata", ci era stata data dal nostro governo.
Dopo la tua prima visita nel 1967, ho accettato il tuo invito a venire a Ramallah. Abbiamo parlato per ore e tra noi e' nata una forte amicizia. Tuttavia fu subito chiaro che le nostre scelte politiche erano molto diverse. Ognuno di noi guardava la storia e il futuro attraverso le lenti della sofferenza del suo popolo. Il mio modo di vedere, pero', comincio' a cambiare.
Un giorno che non dimentichero' mai, venne a casa nostra, a Ramleh, tuo padre. Allora lui era vecchio e cieco. Si mise a toccare le pietre rugose della casa. Poi chiese se l'albero dei limoni stava ancora nel giardino. Lo portammo vicino all'albero pieno di frutti che proprio lui aveva piantato molti anni prima. Lo accarezzo' e rimase li' in silenzio. Le lacrime gli scorrevano sul viso.
Molti anni dopo, tuo padre era morto e tua madre mi disse che ogni volta che si sentiva triste e scoraggiato la notte si metteva a camminare su e giu' nel vostro appartamento preso in affitto a Ramallah, tenendo in mano un limone ormai secco. Era lo stesso limone che gli aveva dato mio padre quel giorno della sua visita alla vecchia casa.
Fin da quando ti ho conosciuto, mi ha cominciato a crescere dentro il sentimento che questa casa spaziosa, con gli alti soffitti, le grandi finestre, i vasti terreni intorno, non era piu' soltanto una "casa araba". Dietro, ora, c'erano dei volti. I muri evocavano ricordi e lacrime di un'altra gente. Per me e' stato molto doloroso da giovane, venti anni fa, aprire gli occhi su alcuni fatti tenuti fino ad allora molto ben nascosti. Per esempio, ci era stato fatto credere che la popolazione araba di Ramleh e Lod fosse scappata all'avanzare dell'esercito israeliano nel '48, lasciandosi dietro tutto in una fuga precipitosa e vigliacca. Questa certezza ci rassicurava: serviva a prevenire il senso di colpa e i rimorsi. Dopo il 1967, pero', ho conosciuto non solo te, ma anche un ebreo israeliano che mi racconto' la storia come l'aveva vissuta di persona*. L'amore per il mio paese stava perdendo la sua innocenza..."
Dalla lettera scritta da Dalia Landau, ebrea israeliana, all'avvocato palestinese Bashir Kayri, militante dell'OLP, pubblicata sul quotidiano "Jerusalem Post" il 14 gennaio 1988. La lettera appare nell'opuscolo: "Donne per la pace" del Centro-Donne, pubblicato l'8 Marzo 1991.
*"Yigal Allon ha chiesto a Ben Gurion cosa si dovesse fare con i civili. Ben Gurion ha fatto un cenno con la mano come a dire: mandateli via. 'Mandarli via ' e' un termine con un suono cattivo. Psicologicamente, era una delle azioni piu' difficili da fare. La popolazione di Lydda e Ramleh non ando' via spontaneamente. Non c'era modo di evitare l'uso della forza e sparammo per far marciare la gente quelle dieci-quindici miglia, finché incontrarono la legione araba". (Yitzak Rabin, Service Diary, citato da David Shepler, NY Times, 22 ottobre 1979) www.arabcomint.com
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janet
Utente Master
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Posted - 15 July 2006 : 01:18:53
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IL GRANDE GIOCO
Israele ed USA uniti contro il mondo: l'aggressivita' di Israele e' sempre stata fattore destabilizzante per il Medioriente fin dall'anno della sua creazione come bastione degli interessi americani nell'area
di Uri Avnery, pacifista israeliano
Alcune settimane fa, e' accaduto qualcosa di curioso: Israele ha scoperto che l'Iran e' il Grande Satana.
E' accaduto abbastanza improvvisamente. Non c'e' stata alcuna notizia sensazionale precedentemente, nessuna scoperta. Come per ordine di un drill-sergeant, l'intero apparato israeliano ha mutato direzione. Tutti i politici, i generali, i media ufficiali, con il solito baccano concertato, tutti insieme hanno scoperto, in una notte, che l'Iran e' l'immediato, vero e terribile pericolo.
Con un eccezionale tempismo, in quello stesso momento veniva sequestrata una nave che, cosi' ci hanno detto, trasportava armi iraniane ad Arafat. E, in quello stesso momento, a Washington, Shimon Peres, un uomo per tutte le stagioni e servo di tutti i padroni, si avvicinava ad ogni diplomatico che incrociava ed a tutti raccontava la stessa storia di migliaia di missili iraniani dati agli Hezbollah. Si', si', gli Hezbollah (inclusi da Bush nella famigerata lista delle "organizzazioni terroristiche") stanno ricevendo armi orribili dall'Iran (incluso da Bush nell' "Asse del Male") per minacciare Israele, il prediletto del Congresso.
Vi sembra folle? Affatto! In questa follia c'e' metodo.
La faccenda e' semplice da spiegare. L'America e' ancora infuriata per l'attacco alle Torri gemelle. Ha appena vinto una guerra stupefacente in Afghanistan senza sacrificare quasi nessun soldato americano. Ora e' ferma, furiosa ed ubriaca per la vittoria, e non sa chi attaccare. L'Iraq? La Corea del Nord? La Somalia? Il Sudan?
Il Presidente Bush non puo' fermarsi proprio ora, non si puo' sciupare una simile immensa concentrazione di potere. Inoltre, Bin Laden non e' stato ancora ucciso. La situazione economica e' disastrata, Washington e' scossa da uno scandalo di proporzioni gigantesche (Enron). Il pubblico americano non deve sentirsi demoralizzato da tutto cio'.
Ed ecco che arrivano i leaders di Israele e cominciano a gridare dal tetto: l'Iran e' il nemico! L'Iran deve essere attaccato!
Chi ha preso questa decisione? Quando? Come? E, piu' importante, dove? Chiaramente non in Israele, ma a Washington DC. Una componente importante dell'amministrazione USA ha dato un segno ad Israele: Inizia una massiccia offensiva politica per indirizzare la pubblica opinione, i media ed il Congresso americani.
Chi sono questi elementi? E quali sono i loro interessi? C'e' bisogno di una spiegazione piu' dettagliata.
La risorsa terrestre piu' ambita sono i giganteschi giacimenti di petrolio della regione del Mar Caspio, i quali sfidano la ricchezza di quelli sauditi. Si ritiene che nel 2010 essi produrranno 3,2 miliardi di barili di greggio al giorno, che vanno ad aggiungersi ai 4850 miliardi di piedi cubici di gas naturale all'anno.
Gli Stati Uniti sono determinati a (1) ottenerne il possesso, (2) eliminare tutti i potenziali rivali, (3) salvaguardare l'area politicamente e militarmente, e (4) riuscire a trovare una via che, dai giacimenti, arrivi al mare aperto.
Questa campagna e' sostenuta da un gruppo di persone alle quali appartiene anche la famiglia Bush. Insieme all'industria degli armamenti, questo gruppe include sia George Bush senior, che il George junior appena eletto. Il Presidente degli USA e' una persona sempliciotta, il suo mondo mentale ed intellettivo e' piuttosto limitato, ed i suoi discorsi sono primitivi, provocano caricature, come un Western di seconda categoria. Va bene per la massa. Ma i suoi manipolatori sono persone sofisticate ed astute, davvero. Sono loro che guidano, in realta', l'amministrazione.
L'attacco alle Torri gemelle ha reso il loro lavoro incredibilmente facile. Osama Bin Laden non ha compreso di servire, con le sue azioni, gli interessi americani. Se credessi alla Teoria della Cospirazione, penserei che Bin Laden e' un agente segreto americano. Non credendovi, sono portato, piuttosto, a stupirmi di fronte alla coincidenza.
La "Guerra al Terrorismo" di Bush costituisce un pretesto perfetto per la campagna orchestrata dai manipolatori. Sotto la copertura di questa guerra, l'America ha ottenuto il controllo totale sulle tre piccole nazioni islamiche che circondano i giacimenti di petrolio: Turkmenistan, Uzbekistan e Kyrgyzstan. L'intera regione e' ora sotto il completo controllo americano, sia militare che politico. Tutti i potenziali rivali - primi tra tutti Russia e Cina - sono stati eliminati.
Da lungo tempo, gli americani stavano studiando quale fosse il tragitto migliore per trasportare il petrolio del Caspio al mare. Le rotte che passavano attraverso le zone di influenza russa sono state scartate. La competizione ottocentesca tra Gran Bretagna e Russia, denominata il "Grande Gioco", continua oggi tra America e Russia.
Fino a poco fa, la rotta occidentale, che passava attraverso il Mar Nero e la Turchia, sembrava la piu' gettonata, ma c'e' da dire che agli americani non piaceva molto. La Russia era ancora troppo vicina.
La rotta migliore era a sud, verso l'Oceano Indiano. L'Iran non era stata presa affatto in considerazione, essendo guidata da un "manipolo di fanatici". Rimaneva una rotta alternativa: dal Mar Caspio, attraverso l'Afghanistan e la parte occidentale del Pakistan (chiamata Belucistan), all'Oceano Indiano. Per questo gli americani condussero delle trattative, abbastanza amichevolmente, con il regime dei Taleban. Non ottennero granche'. Quindi inizio' la "Guerra contro il Terrorismo", gli USA conquistarono tutto l'Afghanistan ed installarono i loro agenti come nuovo governo. Il dittatore pakistano fu anch'egli piegato al volere americano.
Se si guardano le mappe delle grandi basi americane create per la guerra, si rimane colpiti dal fatto che sono sistemate sulla rotta dell'oleodotto progettato per trasportare il petrolio all'Oceano Indiano.
E cio' avrebbe dovuto essere la fine della storia, ma, come si sa, l'appetito vien mangiando. Gli americani hanno imparato due cose dall' esperienza afghana: (1) che ogni paese puo' essere piegato attraverso bombardamenti sofisticati, senza mettere in pericolo la vita di nessun soldato, e (2) che la forza militare ed i soldi dell'America possono insediare governi-fantoccio dovunque.
Quindi a Washington si e' fatta strada una nuova idea: perche' l'oleodotto dovrebbe "circumnavigare" l'Iran se e' possibile costruirne uno piu' breve passante per lo stesso Iran? Si deve soltanto far cadere il governo iraniano ed installare un governo filo-americano. Nel passato cio' sembrava impossibile. Ora, dopo l'episodio afghano, il progetto sembra molto verosimile. Bisogna solo preparare l'opinione pubblica americana ed ottenere il sostegno del Congresso prima di sferrare un attacco all'Iran.
Per questo obiettivo, c'e' bisogno dei servigi israeliani. Israele ha un'enorme influenza sul Congresso e sui media. Funzionera' cosi': ogni giorno i generali israeliani dichiarano che l'Iran sta producendo armi di distruzione di massa e che minaccia lo stato ebraico di un secondo Olocausto. Sharon annuncia che il sequestro di una nave iraniana carica d'armi dimostra che Arafat e' collegato alla cospirazione iraniana. Peres dice a tutti che i missili iraniani minacciano il mondo intero. Ogni giorno qualche giornale americano annuncia che Bin Laden e' in Iran o presso gli Hezbollah libanesi.
Il presidente Bush sa come ricompensare coloro che lo servono a puntino. Sharon ha ottenuto mano libera per opprimere i palestinesi, arrestare Arafat, assassinare i militanti ed espandere gli insediamenti. E' semplice, lo scambio: tu mi procuri il sostegno della stampa e del Congresso, io ti servo i palestinesi su di un piatto d'argento.
Questo non potrebbe accadere se l'America avesse ancora bisogno del supporto di alleati europei ed arabi. Ma in Afghanistan gli americani hanno capito che non hanno piu' bisogno di alcuno. Possono sputare negli occhi dei pietosi regimi arabi, sempre a caccia di sostegno finanziario, e anche dell'Europa. Chi ha bisogno delle insignificanti armate britanniche o tedesche quando l'America, da sola, e' piu' potente di tutti gli eserciti del mondo messi assieme?
L'idea della cooperazione israelo-americana contro l'Iran non e' nuova per Sharon. Al contrario, nel 1981, quando egli era ministro della Difesa in Israele, offri' al Pentagono un piano ben disegnato: nel momento in cui Khomeini si sarebbe dimesso, l'esercito israeliano avrebbe immediatamente occupato l'Iran in attesa dell'arrivo degli americani. A tale proposito, il Pentagono avrebbe dovuto rifornire Israele delle armi piu' sofisticate, da trattenere nel paese per essere usate dagli americani nell'operazione.
A quel tempo, il Pentagono non accetto' l'idea. Ora, la cooperazione e' stata ridefinita con un differente background.
Quale conclusione otteniamo da tutto cio'? Innanzitutto dobbiamo tenere ben presente che una reazione iraniana ad un eventuale attacco americano potrebbe farci molto male. Ci sono missili. Ci sono armi chimiche e batteriologiche. Inoltre, quelli tra noi che desiderano la pace, non dovrebbero fare affidamento sull'America. Tutto dipende da noi, israeliani e palestinesi.
Il nostro sangue e' piu' prezioso del petrolio del Mar Caspio. Almeno per noi.
L'articolo e' tratto da Gush-Shalom.org
traduzione a cura di www.arabcomint.com
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