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 PALESTINA.
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janet
Utente Master

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Posted - 21 November 2004 :  01:55:03  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando


Un uomo ed il suo popolo
di Uri Avnery




Dovunque possa essere seppellito dopo la sua morte, verrà il giorno in cui i suoi resti saranno sepolti in terra libera di Palestina, nei luoghi santi di Gerusalemme.

Yasser Arafat e' uno della generazione di grandi leaders sorti dopo la Seconda Guerra Mondiale.

La statura di un leader non si determina semplicemente dai suoi successi, ma dalla grandezza degli ostacoli che ha dovuto superare. In questo caso, Arafat non ha rivali al mondo: a nessun leader della nostra generazione - se non a lui - e' stato chiesto di affrontare prove così crudeli e di resistere ad avversità tanto grandi.

Quando apparve sul palcoscenico della storia, alla fine degli anni '50, il suo popolo era vicino all'oblio. Il nome Palestina era stato sradicato dalle mappe. Israele, Giordania ed Egitto si erano spartiti il paese. Il mondo aveva deciso che non esisteva alcuna entità nazionale palestinese, che il popolo palestinese aveva cessato di esistere, come la nazione degli Indiani d'America - se, in verità, era mai esistito.

Nel mondo arabo, la "causa palestinese" veniva ancora menzionata, ma serviva solo come palla da passare da un regime arabo all'altro. Ognuno di essi cercava di appropriarsene per i propri interessi personali e, nel contempo, stroncava qualsiasi iniziativa palestinese indipendente. Quasi tutti i palestinesi vivevano sotto dittature, molti di essi in situazioni umilianti.

Quando Yasser Arafat, allora un giovane ingegnere in Kuwait, fondò il "Movimento di Liberazione Palestinese" (le cui iniziali all'inverso sono la sigla di Fatah), esso intendeva prima di tutto la liberazione dai vari leaders arabi, così da rendere il popolo palestinese in grado di parlare ed agire per sé. Quella fu la prima rivoluzione di un uomo che ha realizzato almeno tre grandi rivoluzioni in vita sua.

Fu una rivoluzione pericolosa. Fatah non aveva alcuna base indipendente. Doveva funzionare nei paesi arabi, spesso sotto spietate persecuzioni. Un giorno, ad esempio, l'intera leadership del movimento, incluso Arafat, fu gettata in carcere dal dittatore siriano di turno per aver disobbedito agli ordini. Rimase libera solo Umm Nidal, la moglie di Abu Nidal, e fu lei ad assumere il comando dei combattenti.

Quegli anni ebbero un'influenza formativa sullo stile caratteristico di Arafat. Egli dovette barcamenarsi tra i leaders arabi, usare trucchi, mezze verità e linguaggio doppio, scansare trappole e aggirare ostacoli. Divenne il campione mondiale della manipolazione. In questo modo, salvò il movimento di liberazione da troppi pericoli nel momento in cui era debole, fino a che non divenne una forza robusta.

Gamal Abdel Nasser, il presidente egiziano che fu l'eroe dell'intero mondo arabo in quel tempo, fu infastidito dall'emergente forza palestinese indipendente. Per riuscire a controllarlo prima che fosse troppo tardi, creò l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e vi pose a capo un mercenario politico palestinese, Ahmad Shukeiri. Dopo la disgraziata disfatta degli eserciti arabi nel 1967 e dopo l'elettrizzante vittoria dei combattenti di Fatah contro l'esercito israeliano nella battaglia di Karameh (marzo 1968), Fatah inglobò l'OLP ed Arafat divenne il leader indiscusso dell'intera lotta palestinese.

Nella metà degli anni '60, Arafat iniziò la sua seconda rivoluzione: la lotta armata contro Israele. La pretesa era quasi ridicola: un pugno di guerriglieri male armati, non ancora molto efficienti, contro il potente esercito israeliano. E non in un paese di giungle impenetrabili e invalicabili montagne, ma in una piccola, piatta e densamente popolata striscia di terra. Ma questa lotta pose la causa palestinese sull'agenda mondiale. Bisogna dichiararlo con franchezza: senza quel tipo di lotta, il mondo non avrebbe mai prestato ascolto alla richiesta palestinese di libertà.

A causa di ciò, l'OLP fu riconosciuto come "unico rappresentante del popolo palestinese", e trent'anni fa, Yasser Arafat fu invitato a fare lo storico discorso all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite: "In una mano porto la pistola, nell'altra un ramoscello d'ulivo ... "

Per Arafat la lotta armata era un semplice mezzo, nulla di più. Non era un'ideologia, non un fine in sé stessa. Per lui era chiaro che questo strumento avrebbe rinvigorito il popolo palestinese ed ottenuto il riconoscimento del mondo, ma non avrebbe distrutto Israele.

Immediatamente dopo la guerra del Kippur del 1973, Arafat iniziò la sua terza rivoluzione: decise che l'OLP doveva raggiungere un accordo con Israele ed accontentarsi di uno stato palestinese in Cisgiordania e Gaza. Ciò gli pose davanti una sfida storica: convincere il popolo palestinese ad accontentarsi di un misero 22% del territorio della Palestina pre-1948. Senza dichiararlo esplicitamente, era chiaro che ciò prevedeva un limitato rientro dei profughi nel territorio che oggi e' Israele.

Cominciò a lavorare a questo obiettivo nella sua maniera caratteristica, con persistenza, pazienza e tenacia, due passi avanti ed uno indietro. Quanto immensa fosse questa rivoluzione lo si può capire da un libro pubblicato nel 1970 a Beirut, che attaccava senza posa la soluzione dei due stati. La giustizia storica chiede che sia ribadito chiaramente che fu Arafat ad avere la visione degli accordi di Oslo nel momento in cui sia Yitzak Rabin che Shimon Peres propugnavano la disperata "opzione giordana", la pretesa secondo cui si potesse ignorare l'esistenza del popolo palestinese e trasferirlo in Giordania. Dei tre vincitori del Premio Nobel per la Pace, Arafat fu quello che lo meritò di più.

Dal 1974 in poi, fui testimone oculare dell'immenso sforzo fatto da Arafat per fare sì che il suo popolo accettasse il nuovo approccio. Un passo dopo l'altro, esso fu adottato dal Consiglio nazionale Palestinese, il parlamento in esilio, dapprima con una risoluzione che stabiliva una autorità palestinese "in ogni parte della Palestina liberata da Israele", e, nel 1988, che prevedeva uno stato palestinese a fianco di Israele.

La tragedia di Arafat (e la nostra) fu che, ogni volte in cui si arrivava vicini ad una soluzione pacifica, i governi israeliani si ritiravano. I suoi obiettivi minimi erano chiari e rimasero invariati dal 1974 in poi: uno stato palestinese in Cisgiordania e Gaza; sovranità palestinese su Gerusalemme est; restaurazione dei confini pre-1967 con la possibilità di scambi di territorio limitati ed eguali; evacuazione di tutte le colonie israeliane dal territorio palestinese e soluzione del problema dei profughi in accordo con Israele. Per i palestinesi si trattava del minimo. Non potevano cedere più di così.

Forse Rabin arrivò vicino a questa soluzione nell'ultima fase della sua vita, quando, in TV, si riferì ad Arafat chiamandolo "il mio partner". Tutti i suoi successori lo respinsero. Essi non erano pronti a smantellare le colonie ma, al contrario, le allargavano incessantemente. Resistettero ad ogni tentativo di stabilire frontiere definitive, dal momento che la loro visione del sionismo richiede espansione perpetua. Per questo essi videro in Arafat il nemico pericoloso e cercarono di distruggerlo con ogni mezzo, inclusa una campagna di demonizzazione senza precedenti. In questo modo aveva fatto Golda Meir ("il popolo palestinese non esiste"). Così Menachem Begin ("L'animale a due zampe ... l'uomo con i capelli sul volto ... l'Hitler palestinese"), così Benyamin Netanyahu, così Ehud Barak ("gli ho strappato la maschera dal volto"), così Ariel Sharon, che cercò di ucciderlo a Beirut e da allora ci provò incessantemente.

Nessun combattente per la libertà nell'ultimo mezzo secolo ha affrontato tali immensi ostacoli come lui. Egli non si confrontava con un'odiata potenza coloniale o disprezzata minoranza razzista, ma con uno stato supportato, per molte ragioni, da mezzo mondo. In ogni campo - militare, economico e tecnologico - Israele e' più forte dei palestinesi. Quando fu chiamato a stabilire l'Autorità Palestinese, egli non rilevò uno stato esistente e già funzionante, come Nelson Mandela o Fidel Castro, ma pezzi di terra sconnessi ed impoveriti, le cui infrastrutture erano state distrutte da decenni di occupazione. Non guidava un popolo che viveva sulla sua terra, ma un popolo composto per metà da profughi dispersi in molti paesi e per metà da una società frantumata. Tutto ciò mentre proseguiva la battaglia per la liberazione. Mantenere assieme questo pacchetto e portarlo a destinazione sotto tali condizioni, un passo dopo l'altro, e' il successo storico di Yasser Arafat.

I grandi uomini commettono grandi sbagli. Uno degli sbagli di Arafat e' stata la sua inclinazione a decidere tutto da solo, specie da quando i suoi più stretti collaboratori erano stati assassinati. Come disse uno dei suoi più feroci critici: "Non e' sua la colpa. Siamo noi a dover essere biasimati. Per decenni la nostra abitudine e' stata quella di rifuggire dalle decisioni difficili che richiedevano audacia e coraggio. Dicevamo sempre: che decida Arafat!".

E lui decideva. Come un vero leader, lui andava avanti e guidava il popolo dietro di sé. Così aveva confrontato i leaders arabi, così aveva cominciato la lotta armata, così aveva steso la mano ad Israele. Per questo coraggio, si era guadagnato la fiducia, l'ammirazione e l'amore della sua gente, nonostante le critiche.

Con gli anni, la sua statura crescerà sempre più nella memoria storica.
Per quello che mi riguarda: l'ho rispettato come patriota palestinese, l'ho ammirato per il suo coraggio, ho capito le costrizioni entro cui lavorava, l'ho considerato il partner per costruire un nuovo futuro per i nostri popoli. Ero un suo amico.

Come disse Amleto di suo padre: "Era un uomo, prendetelo per quello che era, perché non ne troverete un altro come lui".



traduzione a cura di www.arabcomint.com
fonte AMIN



Un cuore non può bastare per due.
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janet
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12135 Posts
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Posted - 21 November 2004 :  02:00:35  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando


Nel suo addio
di Mahmud Darwish
al-Hayat






Yasser Arafat ci ha colti di sorpresa non sorprendendoci. E' come se l'incontro della persona sofferente e del testo malato abbia predeterminato l'immagine della fine, ed impedito all'eroe tragico di imprimere il suo marchio sul destino. Non vi e' miracolo né sorpresa, questa volta, poiché la tragedia, rappresentata come una lunga soap-opera televisiva, era diventata una tragedia quotidiana, familiare e normale.

Yasser Arafat ci ha preparati gradatamente ai suoi continui addii in più di un'occasione; ci ha fatti abituare ad una morte insolita e non dichiarata - un missile lanciato da un jet di combattimento, o lo schianto di un aereo civile in un deserto. Tuttavia era solito sconfiggere la morte con la vita, e con lui abbiamo vissuto un viaggio durante il quale ci siamo abituati a rincorrere un obiettivo che splendeva della bellezza delle cose impossibili.

E' lui, Yasser Arafat, che era in grado di controllare le contraddizioni degli esili, con un misto di pragmatismo, religione e metafisica. Egli riuscì, a causa del suo straordinario dinamismo, ad identificarsi con il personale, il pubblico, a trasformarsi da leader a luccicante simbolo.

Non praticò l'ingegneria per pavimentare strade ma per aprirle attraverso i campi minati. La storia potrà avere bisogno di molto tempo per organizzare la vita di quest'uomo - il fenomeno. Tuttavia riconoscerà, con distinzione, la sua abilità a sopravvivere sino ad oggi; e fino ad oggi, si fermerà di fronte al miracolo/avventura: quello di accendere un fuoco sul ghiaccio. Egli guidò una contro-rivoluzione; forse era troppo presto, o forse troppo tardi. Una delle due cose, poiché l'equilibrio regionale del potere non permette che un fiammifero sia acceso vicino ai campi petroliferi ... o all'esercito israeliano!

Lui non vinse battaglie militari; né in patria né in esilio. Tuttavia vinse la battaglia per l'esistenza nazionale, pose la causa palestinese sulle mappe politiche regionali ed internazionali, creò un'identità per i dimenticati profughi, instillando la realtà palestinese nella coscienza umana e convincendo il mondo che la guerra inizia in Palestina, e la pace inizia in Palestina.

La kufiya di Yasser Arafat, indossata con cura folklorica e simbolica, divenne guida morale e politica per la Palestina. Tuttavia, per il fatto che racchiudeva tutte le questioni in sé, era divenuto pericolosamente necessario per le nostre vite ... come un padre di famiglia che non vuole che i suoi figli crescano così da essere in grado di provvedere a sé stessi. Così ci preparò, in più di un'occasione, ad abituarci all'idea della paura di restare orfani, alla paura della morte dell'idea se lui fosse stato fisicamente assente. Poiché aveva duellato con la morte ed era sopravvissuto, il subconscio palestinese conservava la sensazione quasi mistica che Arafat potesse non morire. In questo senso, la sua leggenda divenne metafisica.

Tuttavia, le sorprese si stavano preparando altrove. Questa creatura simbolica, che giungeva dall'epica greca, aveva bisogno di alleggerire il peso della sua leggenda; poiché il paese aveva bisogno di costruzione ed amministrazione, e di liberarsi dall'occupazione attraverso nuovi mezzi. Egli e' ora esposto prima di tutti: suscettibile al tocco, al sussurro e alla responsabilità. Sfortunatamente per l'eroe, deve sopraffare i nemici di battaglie sleali da una parte ... e preservare dalle sporgenze interne la sua immagine nella percezione pubblica.

Ma lui, saturo della cultura di Saladino per il negoziato e di Omar per il perdono, non arrivò su un cavallo bianco, né camminando dinanzi ad un cammello ... non vi e' posto per i destrieri ed i cammelli nei tempi moderni. Arrivò alla sua nuova realtà in groppa agli Accordi di Oslo, la cui essenza non era eccessivamente ottimistica. Ma tornò, con un pensiero gioioso in mente: neppure Mosé era entrato nella "Terra Promessa"!

E' il primo passo verso lo stato, disse, e sapeva che la Palestina era ancora lì: nelle questioni in sospeso sullo status finale - Gerusalemme, il diritto al ritorno ed altre questioni spinose. La strada per esse non passava per Oslo, ma per i riferimenti alla legge internazionale.

Lui sapeva che quei riferimenti non erano più validi in un mondo unipolare, che santifica Israele e che ispira alla Casa Bianca le sue divine istruzioni! Sapeva anche che i protocolli presidenziali, le carte d'identità ed i passaporti non significano nulla per i dirigenti israeliani se non distrarre coloro a cui viene negata l'indipendenza con pranzi simbolici e rapidi che non soddisfano l'identità affamata. Sapeva anche che era tornato dall'esilio per una prigione arredata con l'immagine delle cose, non con la loro realtà, e che egli aveva bisogno di un permesso per spostarsi dalla prigione di Ramallah alla prigione di Gaza. I tappeti rossi e gli inni non fanno male ....

Da lì cominciò la crisi del presidente, la sua malattia politica e morale. Questo grande prigioniero, controllato per mezzo delle durissime condizioni israeliane, non poté giungere alla visone israeliana del processo di pace, né poteva più tornare alla lotta tradizionale. E non e' di consolazione pensare che chi si e' pentito di Oslo e che ne ha tradito le conseguenze era il "partner israeliano", che non era più un partner. Cosa fare allora? Nessuno era in disaccordo con il diritto dei palestinesi a resistere. Ciò portò alla seconda intifada come espressione naturale della loro volontà nazionalistica e della perseveranza a far rivivere la speranza di una vera pace, che realizzasse per essi libertà ed indipendenza. Tuttavia, sono state fatte troppe domande su quali siano i mezzi leciti a realizzare questo obiettivo. I palestinesi evitarono il pericolo di essere adescati sulla scena militare come Sharon desiderava per lanciare la sua guerra contro l'entità palestinese nel contesto della guerra globale contro il terrorismo; poiché l'America disconosce la differenza tra i concetti di terrorismo e resistenza.

Yasser Arafat poteva solo contare su un destino che non si realizzasse, e su un miracolo che non soccombesse a quest'era. La Muqata, il suo quartier generale e la sua unica casa, crollava sulla sua testa, una stanza dopo l'altra, mentre egli ripeteva in tono profetico: "martire, martire, martire", inviando brividi nella schiena dell'entusiasmo arabo. Tuttavia, la ripetizione continua delle notizie della crisi la rese normale. In questo modo, anche l'assedio ad Arafat divenne qualcosa di familiare ... tre anni di vita avvelenata; tre anni in cui respirò aria senza ossigeno; tre anni di scorno americano: "non e' più rilevante"; tre anni di lavoro israeliano per privare Arafat della sua credibilità e della credibilità del suo simbolismo. I palestinesi simbolizzano sempre: l'assedio al presidente simboleggia il nostro assedio; la sua sofferenza simboleggia la nostra sofferenza. Lui e' con noi. E' come noi. Lo amiamo perché lo amiamo. Lo amiamo perché non amiamo i suoi nemici.
Questa volta non ci ha sorpresi. Ci ha preparati all'addio. L'assediato ha spezzato il suo assedio per incontrare la morte in esilio, per alimentare la leggenda. Ci ha dato il tempo per allenarci alla sofferenza. In ognuno di noi c'e' un pezzo di lui. Lui e' il padre ed il figlio: il padre di un pezzo completo della storia dei palestinesi, ed il loro figlio, la cui retorica ed immagine essi aiutarono a plasmare.

Non diciamo addio al passato con lui ... ma da oggi entriamo in un ignoto periodo storico. Troveremo il presente, prima di avere paura del domani?



traduzione a cura di www.arabcomint.com





Un cuore non può bastare per due.
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janet
Utente Master

12135 Posts
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Posted - 07 January 2005 :  21:09:48  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando


Non era un modo per morire

The Guardian







La morte di Yasser Arafat, lo scorso novembre, in un ospedale francese, e' avvolta nel mistero, accuse ed acrimonia. Mentre la nazione commemora, i più vicini a lui lottano per accedere alla verità - e persino, dopo la sua morte, per i suoi pochi possedimenti. Suzanne Goldenberg parla con coloro che furono più vicini al leader palestinese, per mettere assieme la vera storia della sua morte.



Vi erano forse una dozzina di uomini attorno alla tomba, e fecero il loro lavoro in silenzio e segretezza, nascosti dai possibili curiosi mediante quattro pilastri sistemati strategicamente. Lavorarono alacremente, spaccando le larghe pietre piane posate lassù solo poche ore prima, ed estrassero una bara pesante e sigillata, la bara di Yasser Arafat.

Nella tradizione musulmana, i morti vengono seppelliti avvolti in un semplice sudario bianco, e ritornano alla terra nel modo in cui sono nati. Dopo la cerimonia funebre pomeridiana, la massima autorità religiosa di Palestina, sheikh Taissir Tamimi, comprese che il presidente palestinese non era stato sepolto secondo i riti religiosi.

La sepoltura, avvenuta il 12 novembre a fianco del diroccato compound di Ramallah che era stato la casa di Arafat e la sua prigione, era stato un affare tumultuoso, un saluto popolare ad un guerriero caduto, tra i singhiozzi delle donne e gli spari nell'aria. La dimostrazione di dolore, mentre il corpo veniva trasportato dall'elicottero alla tomba, fu così potente che i dirigenti, temendo di non poter contenere la folla, sistemarono in fretta il leader palestinese nella tomba di cemento armato, senza estrarlo dalla bara.

Per Tamimi, che era stato chiamato a Parigi, al letto di morte di Arafat per predisporre il suo funerale nel compound di Ramallah, l'errore era inammissibile. Dunque al buio, alle 2 di mattina del 13 novembre, Arafat fu riseppellito. "Ritornammo alla tomba per seppellirlo secondo la nostra religione", ha detto il religioso. "Rompemmo il cemento e le pietre, ed estraemmo la bara. Lo vidi, lo toccai e pregai per lui, dopo di che potemmo seppellirlo adeguatamente".

Le guardie rimisero il corpo a posto, in un container di cemento costruito per preservarne i resti nella speranza che un giorno Arafat possa essere seppellito a Gerusalemme, dopo la creazione di uno stato palestinese. Durante gli anni come leader guerrigliero, il breve interludio di pacificatore e statista ed il lento tramonto tra le rovine del suo quartier generale, Yasser Arafat fu un uomo la cui vita e le cui intenzioni furono avvolte nel segreto e nella confusione.

Questo e' particolarmente vero per ciò che concerne il suo declino, la sua morte e la sua sepoltura. Come mai un intero stuolo di medici - palestinesi, giordani, tunisini, egiziani e francesi - non ha fornito una diagnosi definitiva? E' stato davvero vittima di un avvelenamento o, ad un'età relativamente matura, ha semplicemente dovuto soccombere ad una devastante malattia? Perché quella partenza in fretta e furia da Ramallah ad un ospedale di Parigi? E poi le bizzarre accuse incrociate tra sua moglie, Suha Arafat, ed i dirigenti palestinesi: davvero questi ultimi hanno cercato di accelerare la morte di Arafat, secondo le accuse di Suha? O le sue insinuazioni erano parte di un tentativo di accedere ai fondi palestinesi? Ancora oggi, oltre un mese dopo la sua morte in un ospedale militare alla periferia sud di Parigi, le cause del decesso di Arafat restano sconosciute.

Coloro che sperano di ottenere un posto nelle emergenti strutture di potere, sono impazienti di gettarsi alle spalle l'era di Arafat. Ciò potrebbe non essere così semplice. Assieme alla volontà di costoro di seppellire per sempre Arafat, vi e' un pressante bisogno a livello popolare di spiegare come un uomo vissuto su scala così epica, sopravvissuto a tentativi multipli di assassinio, ad uno schianto aereo nel deserto, all'ostilità dei regimi arabi ed all'odio dei governanti di Israele, abbia potuto morire di una morte così in sordina, così disordinata.

"La gente voleva una morte eroica", dice un uomo che e' stato membro della cerchia di persone più vicine ad Arafat negli ultimi 20 anni. "Tutti si aspettavano che Israele cercasse di ucciderlo, con un F-16, con un missile, in maniera diretta: nessuno si aspettava morisse in questo modo".

NELLA MUQATA

Al pianterreno del quartier generale dell'amministrazione palestinese in Cisgiordania, l'edificio costruito all'epoca del mandato britannico e noto come la Muqata, c'e' una piccola stanza senza finestre, con una brandina militare. Questa era la stanza di Arafat, arredata in maniera spartana da un uomo famoso per aver trascorso la vita con due soli set di abbigliamento - due uniformi militari verde oliva.

Oggi la stanza e' chiusa. I dirigenti palestinesi dichiarano che hanno in mente di trasformarla in museo, ma vi e' un serrato dibattito su come gli oggetti di Arafat debbano essere preservati per i posteri. Bisogna lasciare la stanza così com'e', con le mura diroccate ed i mobili semidistrutti, oppure migliorarla con qualche artificio? E' proprio in questa stanza che comincia la storia degli ultimi giorni di Arafat, all'inizio del santo mese di Ramadan, caduto quest'anno il 15 ottobre.

Attorno a questa data, i membri più vicini ad Arafat si accorsero che il leader sembrava soffrire di una sorta di influenza gastrica. Non vi era nulla di cui meravigliarsi. Dal maggio 2002, Arafat non aveva messo piede fuori della Muqata. Aveva affrontato un assedio di sette settimane nella primavera di quell'anno, rinchiuso assieme ai suoi fedelissimi e a dozzine di militanti palestinesi ricercati da Israele, mentre i carri armati israeliani imperversavano nelle strade di Ramallah. "Naturalmente, non era un luogo salutare", ricorda Tawfiq Tirawi, capo dell'intelligence palestinese in Cisgiordania. Come molti altri, si era unito alla cerchia di Arafat diversi anni prima, arrivando da Beirut mentre era ancora uno studente, nel 1973. "Non vi era aria fresca, né acqua pulita. Parliamo di circa 300 persone rinchiuse in uno spazio di 200 m. Immaginatevi, 20 persone che usavano una stessa toilette, senza acqua. Ci stavamo ammalando tutti".

Quando l'assedio fu alleggerito, alla metà di maggio 2002, Arafat uscì in elicottero per osservare le devastazioni a Betlemme, Nablus e Jenin, dove fu interrogato dai profughi. Poi ritornò alla Muqata, fatta a pezzi dai bulldozer e dai carri armati israeliani come il resto della Cisgiordania. Non ne sarebbe uscito mai più, e resistette a tutti i tentativi di ripulire le macerie lasciate da Israele. Fino alla fine, la Muqata ebbe l'aspetto di un ammasso di macchine sfasciate, macerie e rovine.

L'uomo i cui orizzonti spaziavano nel mondo, che volava di continuo per incontrare i leaders internazionali, era stato definitivamente seppellito. La Palestina di Arafat era diventata più piccola di una cella: una stanzetta al pianterreno del compound, con una brandina singola.
All'inizio, almeno, il confino non appariva definitivo; Arafat si compiaceva nel raccontare ai suoi visitatori che era già sopravvissuto ad un assedio dell'Israele di Ariel Sharon - a Beirut, nel 1982 - e sarebbe sopravvissuto anche a questo. Tuttavia le sbarre della prigione cominciavano a serrarsi attorno al leader palestinese.

Sebbene all'inizio il primo ministro israeliano permetteva ad Arafat una certa libertà di movimento entro Ramallah, egli esitava persino ad accogliere i suoi ospiti sulla porta, e si scherniva dicendo che un missile israeliano poteva colpirlo ad ogni momento. In realtà, non dimenticava le sue responsabilità verso gli uomini all'interno della Muqata, si sentiva come un padre-protettore per le dozzine di militanti che vi si erano rifugiati. Arafat era convinto che, se fosse uscito, Israele avrebbe colto l'opportunità di distruggere definitivamente l'edificio, sia per uccidere gli uomini ricercati, sia per livellare ciò che era considerato come un simbolo dello stato palestinese.

Col tempo, i sospetti di Arafat si dimostrarono reali, mentre diveniva sempre più chiaro che Israele non aveva alcuna intenzione di permettergli di uscire dalla Muqata. Nel tardo 2003, dopo un attentato kamikaze a Gerusalemme che fece 23 morti, i consiglieri più prossimi a Sharon cominciarono a parlare apertamente di assassinarlo. "Arafat non può più essere un fattore di ciò che accade qui", disse il 14 settembre 2003 il vice-premier Ehud Olmert alla radio israeliana. "L'espulsione e' una delle opzioni", aggiunse, "l'altra e' l'assassinio".

L'isolamento ebbe un effetto terribile. Gli intimi descrivono un uomo sempre più scoraggiato da una situazione politica che gran parte del mondo considerava essere la sua disastrosa creazione. "Cominciò a preoccuparsi seriamente del futuro politico dell'Autorità Palestinese e del popolo palestinese", dice l'uomo che da 20 anni fa parte della cerchia degli intimi di Arafat. "Si convinse che l'America non si sarebbe mai mossa nella giusta direzione per portare pace nell'area. La situazione era terribile, non vi erano praticamente vie d'uscita. Sembrava la catastrofe del 1948, l'anno in cui fu creato lo stato ebraico".

Lo stato psicologico di Arafat si deteriorò. Dorgham abu Ramadan, un cardiologo appartenente ad una delle migliori famiglie di Gaza ed uno degli ultimi ad entrare nella cerchia di intimi, cominciò a fare visite regolari alla Muqata, dopo essersi trasferito a Ramallah. "Il suo stato psicologico era davvero difficile. Aveva spesso paura. Non riusciva a concentrarsi. Dimenticava molto - il nome delle persone, i nomi delle cose. A volte cercava di spiegare qualcosa, e non ci riusciva. L'anno scorso, molte volte Arafat non era normale. Le sue emozioni e la sua psicologia erano molto differenti. Era un uomo profondamente cambiato". Il racconto e' confermato da altri, che ricordano che spesso Arafat restava in silenzio per giorni interi.

A volte, l'agitazione diveniva estrema, ricorda abu Ramadan. "Era spesso arrabbiato, agitato ed aveva paura di molte persone - che le persone che lavoravano con lui potessero assassinarlo".

LA CERCHIA DEGLI INTIMI

E' un fatto riconosciuto nell'Autorità Palestinese che tutte le strade per il potere passavano attraverso Arafat. L'ammissione alla cerchia degli intimi veniva accordata solo dopo molti anni di fedeltà. Alla Muqata, come a Beirut e Tunisi prima, la cerchia era esclusivamente maschile, un nucleo di circa 30 persone che erano una presenza costante nella vita di Arafat.

Sebbene gratificati del titolo di consiglieri presidenziali, i funzionari della Muqata erano essenzialmente seguaci di campo ed operatori politici, non amici. "Era circondato da molte - mi perdoni - nullità, persone opportuniste, incompetenti, così si può tranquillamente dire che era solo", dice un compagno di vita.

I cosiddetti intimi erano meno qualificati del dottore ultimo arrivato per comprendere i segni del declino di Arafat, per non parlare del fatto che il loro leader potesse avere una diminuita capacità mentale. Anche coloro che privatamente erano preoccupati, non desideravano intervenire in maniera troppo decisiva con Arafat riguardo la sua salute.
Come i suoi consiglieri ben sapevano, il leader palestinese era un uomo che nutriva suprema fiducia nelle sue capacità, e che non si fidava altrettanto degli altri. Così come era convinto di poter svolgere i compiti di amministrazione meglio dei suoi consiglieri, allo stesso modo era convinto di poter essere in grado di curarsi senza fare ricorso alla medicina moderna. Sebbene non avesse mai sofferto di pressione alta o di disturbi cardiaci, adorava parlare con abu Ramadan dei problemi cardiaci e della loro prevenzione, dimostrandosi quasi un esperto.

Ufficialmente, il medico di Arafat era Omar Dakka, un palestinese entrato nell'entourage del leader quando questi era a Tunisi, dal 1983 al 1994. Arafat era comunque in comunicazione con Ashraf Kurdi, un neurologo giordano che lo curò per la prima volta nel 1992, dopo che sopravvisse ad uno schianto aereo nel deserto libico. Ma, come ammettono persino i suoi medici, Arafat era sospettoso come un contadino di fronte alla medicina moderna ed a coloro che la praticavano, nonostante adorasse avere medici come amici. "Arafat non si fidava di molte persone", ammette Kurdi. "Era la sua natura. Anche per quello che concerne le medicine, temeva sempre di essere avvelenato". Era riluttante persino a prendere medicine per il tremore che lo affliggeva, una condizione spesso erroneamente scambiata per morbo di Parkinson. Amava prendere solo vitamine, E e complesso B, ed aveva un debole per i trattamenti erboristici.

Quest'abitudine ha funzionato per anni. Nonostante alcune complicanze e quello che Kurdi definisce un tremore essenzialmente benigno, Arafat non aveva seri problemi di salute. La sua giornata di lavoro cominciava alle 8-9 di mattina e non terminava prima di mezzanotte, eppure non mostrava mai segni di stanchezza. Il cuore funzionava bene, non aveva problemi di pressione sanguigna, né di diabete, e la sua dieta era esemplare: niente carne rossa, molte verdure, pesce e pollo. Non fumava e non beveva; aveva persino smesso di bere caffè a favore di blande camomille che versava nelle minuscole tazze che i palestinesi adoperano per il caffè ristretto che bevono tradizionalmente.

Il 25 settembre dell'anno scorso - per triste coincidenza, lo stesso giorno in cui Arafat ricevette la visita dei genitori di Rachel Corrie, l'attivista americana schiacciata a morte da un bulldozer israeliano a Gaza - si ammalò. I suoi collaboratori ricordano che lamentò un forte mal di testa, febbre alta e stomaco in disordine. Durante quell'episodio, fu curato con comuni antibiotici e si riprese in due settimane.

Nell'autunno di quest'anno tutto precipitò. Due o tre giorni prima dell'inizio del Ramadan, il 15 ottobre, Arafat si ammalò improvvisamente. I suoi compagni alla Muqata descrivono un malessere improvviso e violento, come un'influenza con disturbi epigastrici ed una febbriciattola persistente, un grado forse superiore alla temperatura normale. Arafat lamentava violenti dolori all'addome. In un primo momento, i suoi collaboratori associarono il malessere all'inizio del mese di digiuno, e per alcuni giorni Arafat cercò di aggrapparsi alla sua routine quotidiana, indossava l'uniforme militare e si sedeva alla scrivania nel suo ufficio. Insisté anche nell'eseguire il digiuno durante il giorno. Ben presto, però, fu chiaro che non si trattava di una banale influenza. Arafat non riusciva a trattenere il cibo, e cominciò a perdere peso in maniera allarmante.

Il 17 ottobre partecipò ad un incontro della sicurezza nazionale. "Pensò di poter resistere per tutto l'incontro, ma era veramente troppo, per lui", dice un altro veterano della cerchia di Arafat. Il leader riuscì a resistere dieci minuti, poi dovette ritirarsi nella sua stanza privata.

SEGNALI ALLARMANTI

Arafat era famoso per i suoi baci platonici. Baciava le mani di dignitari stranieri, le guance dei suoi funzionari - a volte sei-sette volte - e le gambe ferite dei militanti palestinesi. Una volta ammalatosi, i baci finirono. I visitatori che facevano la fila fuori della sua porta per salutarlo venivano avvertiti di non avvicinarsi troppo, poiché Arafat temeva di trasmettere loro un virus. "Diceva a tutti: ho l'influenza, non posso avvicinarmi", ricorda Tamimi, il religioso. Arafat non voleva ancora ammettere che avesse qualcosa di più serio di una brutta influenza.

Ma i suoi compagni erano davvero allarmati. Il 17 ottobre, un team di esperti arrivò dall'Egitto, ed includeva un internista, un cardiologo, un anestesista ed un neurologo. Il giorno dopo, arrivò un altro team dalla Tunisia, e cominciò a lavorare furiosamente per stabilire l'origine della malattia di Arafat, tra campioni di sangue, di urina e di feci. Sottoposero il paziente ad un'endoscopia e ad un prelievo di midollo spinale alla rudimentale clinica installata l'anno prima all'interno del compound. Tuttavia il paziente non cooperava.

Il leader palestinese desiderava dimostrare di essere ancora in sella. Il 24 ottobre, lasciò il suo letto per presiedere ad una riunione del consiglio esecutivo dell'OLP. "Quando lo incontrammo, riuscì a ricordare con difficoltà chi stesse parlando", racconta uno dei partecipanti. "I suoi occhi vagavano, non riuscivano a focalizzare. Vagarono per tutto il tempo".

Il 25 ottobre, i dottori cominciarono a disperare. Le sue piastrine continuavano a calare, prova che il suo organismo stava soccombendo alla malattia. Nei giorni successivi gli furono fatte trasfusioni per rigenerare il sistema, ma il trattamento non ebbe effetto. Il 27 ottobre, il numero di piastrine non superava le 40.000, contro una media normale di 150-500.000. Il team medico chiese ed ottenne il permesso che Arafat fosse trasferito all'ospedale di Ramallah. La realtà cominciava a profilarsi anche per il leader palestinese, affondato nei cuscini del suo lettino nella stanza senza finestre. Era debole, debilitato dalla rapida perdita di peso e mortalmente pallido, tranne che per le guance rosso fuoco a causa del cortisone che avrebbe dovuto agire sulle piastrine. Il 27 ottobre, Tirawi entrò per salutarlo. Arafat era ritirato. "Disse: Spero di stare meglio, ma ho molti dolori", ricorda il capo dell'intelligence. "Non era incosciente, ma non riusciva a concentrarsi, dimenticava di continuo le cose".

Tirawi era sopraffatto dal disagio. "Avremmo dovuto trasferirlo molto prima", dice. "A quel tempo, era già troppo tardi. Forse, se fosse stato ricoverato prima, avrebbe potuto riprendersi".

Il 28 ottobre, le piastrine scesero a 26.000, e apparve a tutti chiaro che la vita di Arafat era in pericolo. Kurdi fu chiamato a Ramallah ed i medici decisero il da farsi. Le strutture di Ramallah non erano più sufficienti, Arafat doveva essere trasportato all'estero. Quella sera, la moglie di Arafat, Suha, arrivò a Ramallah da Tunisi. Era la prima volta che si riuniva a suo marito da quando aveva lasciato i territori palestinesi, all'inizio dell'intifada del 2000. Anche lei voleva che Arafat fosse trasferito all'estero.

La decisione non fu immediatamente trasmessa ad Arafat, il quale temeva che se avesse lasciato Ramallah, Israele non gli avrebbe più permesso di ritornare. "Rifiutava di partire perché pensava che Israele avrebbe approfittato della sua assenza per distruggere la Muqata, il simbolo della presidenza palestinese", ha dichiarato al Guardian Leila Shahid, rappresentante palestinese in Francia. Cercando con difficoltà di dimostrare di essere ancora in possesso delle sue facoltà, Arafat permise al suo fotografo ufficiale di riprenderlo. L'immagine non era rassicurante: al posto dell'uniforme verde oliva, Arafat indossava un pigiama azzurro polvere e, al posto della tradizionale kufiya bianca e nera, un cappello di lana. Ahmed Qureya (Abu Ala), cominciò ad accennare alla possibilità di recarsi all'estero e, intanto, prendeva con discrezione accordi con il console generale francese a Gerusalemme, per chiedere se Parigi avesse la possibilità di inviare un aereo medico per Arafat. A Parigi, Leila Shahid prendeva gli stessi contatti.

Per i dirigenti palestinesi, la Francia era una scelta ovvia. Arafat aveva buoni rapporti con il presidente Chirac ed i francesi avrebbero risposto con fermezza ad ogni tentativo israeliano di distruggere la Muqata o di impedire il ritorno del leader. Questa fiducia fu premiata: secondo Shahid, entro 12 ore Parigi annunciò di essere pronta ad inviare un aereo ad Amman per prendere Arafat e trasportarlo in Francia.
Restava un solo problema: ottenere l'assicurazione da Israele che non avrebbe usato l'assenza di Arafat per espellerlo. Qureya riuscì ad avere la garanzia da Sharon che ad Arafat sarebbe stato permesso di tornare. Non pienamente convinto, Qureya chiese a Mubarak di telefonare a Sharon per ottenere una simile assicurazione.

Dunque, Arafat diede il suo assenso al trasferimento. I consiglieri sentivano, come dichiararono in seguito al Guardian, che il leader palestinese sapeva di essere prossimo alla morte e la sua unica speranza era un trattamento all'estero. La partenza da Ramallah fu stabilita per il 29 ottobre, venerdì, con un elicottero militare giordano che lo trasportò ad Amman, dove lo attendeva un aereo medico francese. Arafat partì all'alba di un giorno piovigginoso, con poche centinaia di supporters che, alla Muqata, videro il loro fragile e cadente leader accompagnato da una Mercedes nera all'elicottero. A quel punto, aveva ancora la forza di inviare baci alla folla, ma, allorché giunse a Parigi, era troppo debole per affrontare le telecamere.

IL VOLO IN FRANCIA

L'ospedale militare di Percy quel pomeriggio dell'ultimo venerdì d'ottobre, era praticamente deserto a causa di un week-end vacanziero. Le autorità dell'ospedale diedero all'entourage un blocco di quattro camere: una per Arafat, una per sua moglie ed altre due per il capo dei servizi di sicurezza Ramzy Khoury e per il medico di Arafat, Dakka. In un'altra sezione dell'ospedale vi era un'altra parte dell'entourage di Arafat, giunto con due voli separati. Nasser Kidwa, nipote di Arafat e rappresentante palestinese all'ONU, giunse dopo aver interrotto una vacanza familiare.

Arafat fu posto in un'unità intensiva e, nei cinque giorni successivi, la sua vita divenne un susseguirsi di esami. Le sue condizioni apparivano stabili, e i compagni sperano in un miglioramento del leader, inclusa Shahid, la quale era rimasta sconvolta dall'aspetto di Arafat quando atterrò a Parigi: "Sembrava un uccellino, tanto era magro", ricorda. "Il suo volto sembrava cotto dal sole. Era rosso, rosso, rosso, e la pelle stava squamando".

Nei giorni successivi, Arafat riuscì a mangiare piccole quantità, di yoghurt e di preparati proteici. Dopo 48 ore, ebbe una conversazione telefonica con sua figlia Zahwa, che era restata a Tunisi, e con Chirac. Parlò con Mahmud Abbas, con Ahmed Qureya e telefonò al ministro delle Finanze palestinese per chiedergli se avesse provveduto a pagare gli stipendi, quel mese. IL 2 novembre, vi fu un attentato kamikaze a Tel Aviv, e Arafat telefonò ai suoi collaboratori a Ramallah per dir loro di emanare un comunicato di condanna da parte dell'Autorità Palestinese. Nessuno ebbe il coraggio di dirgli che il comunicato era già stato emanato a suo nome. Per l'entourage, l'intervento era un buon segno; Arafat stava meglio.

Tuttavia i medici francesi - e gli specialisti in tossicologia e guerra biologica - non erano ancora riusciti a determinare le cause della malattia. Dopo quattro giorni di test, la leucemia era stata esclusa, ma non si riusciva ancora a capire l'origine dei disordini al sangue. I medici sapevano che, se non si fosse capita la causa della malattia, le possibilità di sopravvivenza di Arafat erano scarse. Nelle prime ore del 3 novembre, Shahid e tutti gli altri accampati all'ospedale furono svegliati dalla notizia che il leader palestinese era scivolato nel coma. Non fecero in tempo a raggiungere la stanza che Arafat era già stato trasportato in terapia intensiva nel seminterrato dell'ospedale, reso inaccessibile da una spessa lastra di vetro. I medici, avendo capito che non vi era ormai tempo di comprendere quali erano le cause della malattia, sottoposero il leader ad un'anestesia locale ed eseguirono una biopsia epatica. Il giorno seguente, ancora incosciente, fu visitato dal presidente francese, che trascorse mezz'ora all'ospedale.

Nella versione di Shahid, l'improvviso declino di Arafat frantumò quello che era stato un accordo cooperativo tra sua moglie Suha ed i dirigenti dell'Autorità Palestinese. Il primo segno di disaccordo fu il rifiuto di Suha di rendere pubbliche ulteriori informazioni sulla salute di Arafat, un rifiuto favorito dalle leggi francesi sulla privacy.
"Dal giorno in cui lui entrò in coma, la signora Arafat disse: "No, non voglio più parlare con la stampa", dice Shahid. "Era una mescolanza di molte cose, inclusa una reazione psicologica di possesso". (Le richieste di intervistare Suha Arafat non hanno ottenuto risposta).

Il 7 novembre, le autorità ospedaliere annunciarono che il coma di Arafat si era aggravato; i massimi dirigenti dell'AP annunciarono un piano per volare a Parigi. La combinazione degli eventi esasperò Suha. Infuriata, telefonò alla televisione al-Jazeera, ed accusò l'AP di desiderare la morte di suo marito. "Che l'onesto popolo palestinese sappia che un manipolo di coloro che vogliono ereditare sta venendo a Parigi per cercare di seppellire vivo Abu Ammar", disse. Secondo Shahid, si trattò della rottura finale tra lei ed il popolo palestinese.

La mancata diagnosi suscitò subito l'ipotesi che Arafat fosse stato avvelenato, presumibilmente da Israele. L'ipotesi fu rafforzata dal comportamento confuso e contraddittorio dei dirigenti palestinesi in quegli ultimi giorni. Il giorno in cui Arafat morì, Kurdi annunciò, ad Amman, che dirigenti palestinesi gli avevano proibito di visitare il suo paziente per 13 giorni. (A Ramallah, recentemente, un collaboratore caduto in disgrazia negli ultimi anni, Bassam Abu Sharif, ha prodotto una lettera che egli aveva inviato ad Arafat nel dicembre 2002, in cui lo avvertiva dell'esistenza di un complotto per avvelenarlo. L'informazione, ha dichiarato al Guardian, gli era stata passata da "amici israeliani").

Il rapporto in 558 pagine sulla malattia di Arafat, assemblato dai medici francesi, descrive un complesso disordine, definito coagulazione introvascolare disseminata (DIC), la causa principale del quale sono infezioni e malattie maligne. I vasi sanguigni sono bloccati da piccoli grumi di sangue, e ciò impoverisce le piastrine ed i fattori coagulanti necessari a controllare le emorragie e porta alla morte. (A Percy, ad Arafat fu somministrata eparina, un anti-coagulante che rappresenta il normale trattamento per il DIC, che aiuta a prevenire l'impoverimento delle piastrine e che, tuttavia, può esacerbare qualsiasi emorragia).

Ma la DIC e' sempre una condizione secondaria. I dottori non hanno mai osato esprimere un'opinione sulle cause che l' hanno determinata e, secondo il dottor Kurdi, c'e' stato un rifiuto da parte dell'uomo che in seguito ha sostituito Arafat alla guida dell'Autorità Palestinese, Mahmud Abbas, ad autorizzare un'autopsia.

"Non hanno voluto farla. Quando si parlava di autopsia, andavano in collera", dice Kurdi. "Lui, [Abbas] diceva che avrebbe disturbato le relazioni con la Francia".

Persino coloro che non credono che lo Shin Bet sia intervenuto direttamente per mettere fine alla sua vita, danno comunque la colpa ad Ariel Sharon per aver tenuto Arafat prigioniero nel suo compound di Ramallah per tre anni. "Israele e' responsabile per le condizioni in cui e' vissuto ... l'atmosfera, il luogo, erano avvelenati", dice Tirawi.

Riferendosi al desiderio popolare di una morte da eroe, i colleghi di una vita esprimono simili concetti. "Se la consideriamo una morte eroica, dobbiamo sottoscrivere la voce secondo cui egli e' stato avvelenato da Israele ... ma non abbiamo prove".

Ma né le speculazioni sulle cause della malattia, né l'ira di Suha poterono fermare l'inevitabile: Mahmud Abbas e Ahmed Qureya cominciarono a predisporre piani nell'eventualità della morte del leader. Furono date istruzioni scritte all'ospedale su come dovesse essere maneggiato il corpo così da non compromettere i riti religiosi e di sepoltura. Tamimi, come leader religioso, fu convocato da Gerusalemme. La delegazione palestinese discusse dei funerali durante un incontro all'Eliseo l'8 novembre tra Chirac e quattro membri dell'entourage: Abbas e Qureya, Rawhi Fattouh, portavoce del parlamento palestinese e Nabil Shaath, il ministro degli Esteri palestinese. Fu in quell' occasione che Chirac suggerì un cerimoniale di saluto all'aeroporto.

Le discussioni non erano affatto premature. Dopo appena 24 ore, la notte del 9 novembre, Arafat fu colpito da emorragia cerebrale. Tamimi restò al suo capezzale. "Fu una scena molto dolorosa", dice. "Vi era sangue dappertutto, sul suo volto. Il sangue fuoriusciva da ogni possibile luogo. La mia prima reazione fu quella di non comprendere ciò che stava accadendo. Chiusi gli occhi e cominciai a leggere versi del Corano ... Guardavo solo il corpo di Arafat. Non sopportavo la vista del suo volto".

A quel punto, ad Arafat restavano poche ore di vita. Alle 3,30 del mattino di giovedì, 11 novembre, mentre Suha e Tamimi lo vegliavano, il suo cuore cessò di battere. Arafat era morto.

Morì come non avrebbe mai voluto morire, come un esiliato, e tutto ciò che poteva essere fatto per lui era restituire il suo corpo alla Palestina in maniera degna. Come promesso da Chirac, i francesi eseguirono un toccante saluto all'aeroporto militare di Coublay. Sulle note della Marsigliese, un picchetto d'onore trasportò la bara di Arafat, avvolta nella bandiera palestinese, fino all'Airbus 319 che era in attesa. I resti furono trasportati prima al Cairo, per un elaborato funerale di stato, poi a casa, a Ramallah, per l'emozionante sepoltura che Arafat avrebbe voluto. Era l'ultimo venerdì di Ramadan.

Dopo giorni di battaglia per avere il controllo del leader, tutto ciò che restava all'entourage era dividersi i suoi poveri possedimenti. Mentre sua moglie, Suha, si appropriava della sua uniforme, non si sa a chi sia toccata la tradizionale kefiya. Tuttavia resteranno ancora vive le voci e le accuse sulle cause della morte di Arafat e sul significato che essa comporta sulla sua eredità politica.



traduzione a cura di www.arabcomint.com
the guardian



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Posted - 07 January 2005 :  21:14:12  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando



Grosse speranze per l'anno nuovo
di Ramzy Baroud







E' una mia vecchia abitudine terminare i miei messaggi nei giorni che precedono l'anno nuovo con l'augurio: "Prego che l'anno in arrivo porti pace e giustizia al nostro travagliato mondo". Nonostante le deludenti esperienze, persisto, perché la speranza e' essenziale. E' come l'aria e l'acqua.

Guardo all'Iraq e non posso che apprezzare l'umana tenacia. Il 2004 e' stato un anno terribile per il popolo iracheno. Il numero di vittime e' cresciuto in maniera esponenziale nonostante la promessa sicurezza; il suo destino resta legato ai carri armati americani ed "amministrato" dalle dichiarazioni di un crudele generale di guerra statunitense.

Eppure, tra il caos, i funerali di massa e le case fatte saltare in aria, guardo agli abitanti di Falluja e non posso non augurarmi che ottengano giustizia e pace.

A prima vista, gli avvenimenti in Palestina non possono che evocare disperazione e sfiducia: il Muro israeliano continua a ingoiare ciò che resta dello stato che i palestinesi sperano di ottenere. L'esistenza dei contadini palestinesi e' schiacciata da ogni nuova e gigantesca sezione del Muro che Israele costruisce sulla loro terra. Il tasso di mortalità tra i palestinesi, specie tra i bambini, raggiunge nuovi record ogni giorno che passa. E sui media americani continuiamo a leggere che e' tutta colpa delle vittime e che Israele desidera la pace. Il problema, ci viene detto, risiede nella cultura politica palestinese. Solo la democrazia e delle elezioni semi-presidenziali trasparenti possono portare alla pace e mettere fine al conflitto.

I palestinesi, cioè, dovrebbero eleggere un presidente per un corpo politico-ombra che non ha né legittimità né la sovranità territoriale che gli permetta di realizzare la volontà del popolo. Sebbene ciò sfidi ogni logica, ci vogliono far credere che sia possibile la democrazia sotto occupazione militare. Ciò che conta, e' che e' una splendida opportunità di pace.

Ma per ogni albero sradicato, c'e' un contadino che si aggrappa tenacemente alle sue radici; per ogni centimetro di terra confiscata, c'é un vecchio inginocchiato al suolo, con le dita conficcate in esso, che si rifiuta di andar via; per ogni bambino caduto, ve n'é un altro che colora una bandiera. Proprio nel momento in cui Ariel Sharon sperava che la sua politica avesse imposto per sempre il silenzio ad ogni appello alla pace ed alla riconciliazione, arabi, ebrei e volontari di ogni parte del mondo, come Rachel Corrie, sono accorsi in Palestina, per fare scudo con i loro petti nudi agli scolari palestinesi, sfidando i coprifuoco ed urlando per la pace e la giustizia.

A causa di ciò e di altro, ho speranza.

Ho speranza perché le regole del gioco stanno cambiando.

Guerre pianificate per devastare e distruggere una terra ed il suo popolo stanno generando unità ed il risveglio delle forze del bene in tutto il mondo. Il tentativo dei media corporativi di imporre la dittatura del discorso viene sfidato sempre più dal nostro desiderio di smascherare le bugie dei dottor stranamore, dei guerrafondai e dei loro accoliti. Le continue violazioni dei diritti delle donne, dei bambini e dei lavoratori fomentano un desiderio altrettanto robusto di restaurarli.

Non e' un segno il fatto che quando i venezuelani riportarono al potere il loro presidente eletto, Hugo Chavez, dopo un fallito tentativo di sabotare la democrazia nel paese, molti tra coloro che ne celebravano il ritorno innalzavano bandiere palestinesi? E non e' un segno che durante i funerali del presidente Yasser Arafat, bandiere di tutto il mondo sventolavano assieme a centinaia di bandiere palestinesi, in solidarietà?

E' vero, vi sono sovrabbondanti ragioni che giustificherebbero un senso di angoscia e paura mentre apriamo gli occhi sul 2005, ma vi e' di certo un margine ampio di speranza che ci aiuti a sopportare il travaglio di un altro anno. E, quindi, con fiducia dichiaro ancora una volta:

"Prego che questo nuovo anno porti finalmente pace e giustizia a questo nostro devastato mondo".


a cura di www.arabcomint.com
palestine chronicle



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janet
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Posted - 26 January 2005 :  01:53:41  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando



La minaccia della pace
di Ran HaCohen











DOPO ARAFAT

Come disse una volta Oscar Wilde, ci sono solo due tragedie, nella vita: una e' non ottenere ciò che si vuole, l'altra e' ottenerlo. Israele si trova ad affrontare la seconda tragedia. Da anni sapevamo ciò che volevamo: volevamo Arafat morto. Non che semplicemente ci sedevamo ad attendere: abbiamo utilizzato un incessante incitamento per preparare il mondo alla sua eliminazione; abbiamo persino appoggiato una decisione del governo per sbarazzarsi di lui, ed abbiamo tenuto quel vecchio prigioniero nel suo quartier generale distrutto, in condizioni che avrebbero ucciso prima o poi l'uomo più sano. Ad ogni modo, Arafat e' ora morto, abbiamo ottenuto ciò che volevamo e non ne siamo felici.

Al contrario. Assieme ad Arafat, Israele ha seppellito la sua migliore scusa per perpetrare l'occupazione. Per quanto tempo si può dare la colpa del terrorismo ad un morto? Per quanto tempo si può rifiutare di negoziare con un morto, di incontrarlo faccia a faccia? Non per molto. Più di due mesi dopo la morte di Arafat, persino l'anemica Europa comprende: "la "scusa di Arafat" non esiste più" (Jean Asselborn, presidente del Consiglio dei Ministri dell'Unione Europea, Ha'aretz, 18 gennaio 2005). E, ancora peggio, i palestinesi hanno ora un nuovo leader eletto democraticamente e, ciliegina sulla torta, un leader che apertamente e reiteratamente - in arabo ed inglese - rinuncia alla lotta armata contro l'occupazione. D'altro canto, abu Mazen chiede ancora il completo ritiro israeliano da tutte le terre palestinesi ed uno stato palestinese indipendente. Ciò e', naturalmente, in accordo totale con la legge internazionale, con le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell'ONU e persino con la Road-map del presidente Bush: in breve, e' totalmente inaccettabile per Israele.

O UN FANTOCCIO O UNO SPAURACCHIO

Israele può vivere solo con due generi di leaders palestinesi. Può vivere con un fantoccio che accetti la sovranità israeliana sui territori palestinesi (in cambio avrebbe un po' di "autonomia"), che sia pronto a cedere alle colonie israeliane ed al muro di apartheid il 60% della Cisgiordania (in cambio rimuoveremmo uno o due checkpoint), che si dimentichi dei profughi palestinesi (in cambio potremmo non insistere per la sua conversione al giudaismo). Israele ha fatto molti tentativi di trovare o di creare un fantoccio palestinese del genere, ma ha sinora fallito.

Oppure Israele può vivere con uno spauracchio palestinese, un estremista e fanatico fautore della linea dura. I coloni spesso lo dicono ad alta voce: preferiamo il Jihad Islami, che vuole buttarci a mare. E' molto semplice trattare con un leader siffatto, sia all'interno che internazionalmente.

Ciò che non possiamo davvero sostenere e' un leader palestinese moderato, che garantisca la pace in cambio delle terre, dei diritti e della libertà del suo popolo. Un leader che parli un buon inglese e che non sia vestito alla bin Laden, che non voglia gettarci a mare ma che insiste sul fatto che Gerusalemme sia anche una città palestinese. Un leader del genere mette in evidenza il rifiuto israeliano, e questo e' il grande pericolo per abu Mazen. Non possiamo convincere il mondo di essere le eterne vittime amanti della pace quando la maggioranza (54%) dei palestinesi che vivono nei territori occupati, come mostrano i sondaggi, supporta la soluzione dei due stati sulla base delle linee del 1967, con eventuali correzioni della frontiera e senza un massiccio ritorno dei profughi (Ha'aretz, 18 gennaio 2005). Perché, se questo e' il caso, e' ovvio che il solo ostacolo alla pace e' il rifiuto israeliano, il suo rifiuto ad una pace in linea con questi parametri universalmente accettati.

DEMONIZZARE ABU MAZEN

Dunque, cosa può fare Israele contro questa minaccia? Contro il pericolo di essere biasimato per ciò di cui dovrebbe essere biasimato, ossia per desiderare la pace molto meno di quanto desideri le terre e l'acqua palestinesi?

Fortunatamente vi sono dei mezzi. Abu Mazen dovrebbe essere costretto a scegliere tra due delle desiderate opzioni per un leader palestinese: se non può essere trasformato nel subappaltatore di Israele, deve essere dipinto come un "terrorista". I tentativi sono già in atto. I media israeliani si sono detti "oltraggiati" quando, durante la sua campagna elettorale, abu Mazen si era riferito ad Israele definendolo "il nemico sionista". Un vero oltraggio: dopo tutto, solo agli israeliani e' concesso di chiamare i palestinesi "il nemico" - dai palestinesi ci aspettiamo che ci definiscano i loro amati fratelli maggiori - e poi definire Israele "sionista" e' un insulto ancora maggiore.

Il contesto delle irate parole di abu Mazen non e' stato preso in considerazione. Abu Mazen utilizzò quella definizione dopo aver udito le notizie provenienti da Beit Lahya (striscia di Gaza), dove un carro armato israeliano aveva appena sparato contro coloro che, senza vergogna, l'esercito israeliano aveva definito "attivisti di Hamas", uccidendo Mahmud Raban (12 anni), suo fratello Bassam (17), i l loro cugini Rajah (10), Jaber (16), Mohammed (20) e Hani (17), assieme al loro amico Jibril Kassih (16), e lasciando attaccati ad un respiratore, senza un braccio e senza una gamba, Mohammed Raban (17), Isa Relia (13) con entrambe le gambe amputate al di sopra del ginocchio, ed i due cugini IMad al-Kaseeh (16) e Ibrahim al-Kaseeh (14) entrambi con le due gambe amputate (Gideon Levy, Ha'aretz, 14 gennaio 2005). Questo non e' oltraggioso: e' forse solo un' "eccezione", qualcosa per cui non vale neppure la pena pentirsi o giustificarsi. Al contrario, chiamare Israele "il nemico sionista" subito dopo il bagno di sangue - questo sì che e' oltraggioso.

IMPEGNIAMO GAZA

Tuttavia ci vorrà del tempo per dipingere abu Mazen come un terrorista; ma Israele e' impaziente, vuole agire adesso. I pericoli della pace si affrontano meglio con l'aiuto dell'esercito: Israele lo ha già fatto dozzine di volte, utilizzando l'esercito per deflagrare la scena proprio quando un cessate il fuoco era a portata di mano, proprio come quando rioccupò la Cisgiordania con l'operazione "Scudo Difensivo" (2002), la più grande operazione militare nei territori dal 1967, il giorno dopo che la Lega Araba aveva adottato l'iniziativa di pace saudita, che riconosceva ad Israele il diritto a vivere in pace una volta messo fine all'occupazione.

Ora siamo in una situazione simile. Una operazione militare in grande stile può deviare l'attenzione dalla "nuova era", dalle pressioni per un cessate il fuoco; può unire le masse dietro il nostro valoroso esercito e, soprattutto, aiutare Sharon a rimandare indefinitamente le sue vaghe promesse sullo smantellamento degli insediamenti di Gaza - un piano che, come Tanya Reinhart arguisce in maniera molto convincente, ha pochissime intenzioni di realizzare. Dunque aspettiamoci presto una operazione su vasta scala a Gaza. La scusa immediata - i razzi su Israele - non importa poi tanto, l'argomento va da solo: dal momento che abu Mazen non e' capace di fermare i razzi, siamo costretti ad inviare l'esercito; allo stesso tempo, lo stesso esercito ammette che non ha i mezzi per fermare i razzi. Dunque manderemo l'esercito a fare ciò che non e' capace di fare, perché neanche abu Mazen lo fa. Dopo tutto, l'occupazione non ha bisogno di logica, ma solo di spezzare le ossa.

UN LIBERALE CHIEDE CRIMINI DI GUERRA

Non vi e' sismografo delle intenzioni di Israele migliore dell'anziano opinionista "liberale" Yoel Marcus, del quotidiano Ha'aretz:

"La nostra pazienza ha raggiunto il culmine molto tempo fa (...). C'e' un punto di non ritorno e c'e' il momento in cui il governo deve togliersi i guanti e presentarsi all'altra parte con un secco ultimatum: per ogni attacco indiscriminato contro obiettivi civili, risponderemo colpendo la città palestinese più vicina e più popolosa. Occhio per occhio". ("Occhio per occhio", Ha'aretz, 18 gennaio 2005).

Quando Marcus ricorre allo stile dei propagandisti delle più buie dittature del 20esimo secolo, quando invita apertamente il governo a colpire civili palestinesi innocenti, preparando l'animo dei suoi lettori a crimini di guerra su vasta scala, siate certi che l'esercito non tarderà a rispondere.



traduzione a cura di www.arabcomint.com
da antiwar.com







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janet
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Posted - 26 January 2005 :  02:04:32  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando



26-01-2005
Sull’orlo di una tregua
Alcuni commenti dalla stampa israeliana


Scrive Ha’aretz: “Coloro che sostenevano una dura politica militare verso i palestinesi devono ora trarre le necessarie conclusioni dagli sforzi di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) volti a raggiungere un generale cessate il fuoco con Israele, e devono appoggiare una politica di calma in cambio della calma. Oggi c’è la concreta possibilità di dare vita a una nuova realtà, come ha detto il ministro della difesa Shaul Mofaz. Ma per dare vita a questa nuova realtà occorre pazienza e occorre che si prenda la decisione di fermare la politica del grilletto facile anche da parte israeliana. Se continueranno le operazioni militari quotidiane nelle città palestinesi, se i bulldozer continueranno ad abbattere edifici, se palestinesi continueranno a morire, se le restrizioni ai movimenti fra le loro città non verranno gradualmente ridotte e i valichi riaperti, allora Abu Mazen perderà autorità e la violenza tornerà a imperversare.

Scrive Hatzofeh: Gli sforzi di Abu Mazen per orchestrare un cessate il fuoco con varie fazioni terroristiche palestinesi sono solo sforzi di facciata volti sia a migliorare la sua immagine e la sua posizione in vista del suo viaggio negli Stati Uniti, sia ad attirare pressioni su Israele affinché scarceri tutti i detenuti palestinesi, anche i più pericolosi come Marwan Barghouti. Qualunque cessate il fuoco temporaneo significa regalare tempo alle fazioni terroristiche perché possano prepararsi meglio per la prossima intifada, riorganizzandosi con armi migliori e con una accresciuta capacità di produzione militare dentro le loro case. Qualunque accordo dovrebbe invece comportare la consegna delle armi dei terroristi e la chiusura di tutti i tunnel e le officine che alimentano le scorte di armi ed esplosivi.

Scrive il Jerusalem Post: Per offrire alla sua gente il genere di futuro che i suoi predecessori non vollero dare, gli sforzi di Abu Mazen contro la violenza devono essere accompagnati da una forte iniziativa per lo sviluppo, un’iniziativa che spinga i palestinesi stessi a investire nel commercio, nell’industria, nello sviluppo e nell’istruzione. Questo è ciò che fecero gli ebrei in questa terra ben prima di ottenere il loro stato indipendente, e questo è ciò che li mise in condizione di consolidare il loro stato, una volta ottenuto.

Scrive Yediot Aharonot: Che ce la faccia o meno a raggiungere un cessate il fuoco, che ce la faccia o meno a sopravvivere ai molti trabocchetti che lo aspettano, Abu Mazen ha già conseguito un considerevole successo: ha messo in chiaro che i cambiamenti nella dirigenza palestinese hanno gettato le basi per una realtà diversa, un cambiamento che chiama anche la dirigenza israeliana a cambiare rapidamente gli schemi superati su cui fonda le proprie analisi e le proprie reazioni. In una realtà in cui ci siamo abituati a pensare che tutte le strade per cercare di porre fine alle violenze fossero già state tentate, questa nuova direzione è vitale, e non solo per il fatto che è l’unico passo che non sia stato ancora tentato.


(Da: Ha’aretz, Hatzofeh, Jerusalem Post, Yediot Aharonot, 24.01.05)

Nella foto in alto: bambino palestinese sbadiglia durante un raduno di Hamas, martedì a Beit Hanoun (striscia di Gaza settentrionale).






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janet
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Posted - 24 February 2005 :  00:28:55  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando




ETERNAMENTE VIVO

Adorabile patria nostra!

Quantunque sul tuo cuore girera' nel buio

Il mulino del tormento e del dolore,

I nemici non riusciranno mai, amata patria,

a cavarti gli occhi:

non riusciranno mai!

Continuino, dunque, a soffocarci i sogni

Ed il sentimento del dolore,

a crocifiggerci la liberta' di costruire e lavorare,

a rubarci le risa dei bambini,

a distruggere e a bruciare.

Cio' malgrado, dalla nostra miseria

E dal nostro gran dolore,

dal nostro sangue che macchia le pareti

e dal nostro palpitare tra vita e morte,

nascera' in

noi un'altra vita,

o profonda piaga nostra,

nostro unico amore!

FADWA TOQAN
Poetessa palestinese della resistenza

E' la piu' celebre poetessa palestinese. Nata a Nablus, in Palestina, nel 1917, sorella del celebre poeta Ibrahim Toqan, scomparso a Gerusalemme nel 1941, nel 1936 pubblico' le sue prime poesie su riviste e quotidiani del suo paese e dell' Egitto. Fino al 1967, la poesia di Fadwa, dallo stile ricco e soave, esprime per lo piu' desideri e sentimenti femminili. Dopo la guerra del 1967, che violenta e umilia la terra di Palestina, Fadwa si fa, con una poesia della resistenza forte e incisiva dall'ispirazione vigorosa, interprete del dramma della sua patria e del suo popolo.




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