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janet
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Posted - 12 April 2004 : 17:49:07
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Viaggio a Rafah di Jennifer Loewenstein
La Striscia di Gaza e' più di una prigione. Basta solo trascorrere un po' di tempo a Khan Yunis o Burej, Jabalia o Nuseirat, Gaza City o Beit Hanun per capire l'impostura dell'analogia con la prigione. A Gaza sei più che un detenuto di un gigantesco penitenziario. Sei un obiettivo umano che cammina, pedinato da killer in affitto che possono distruggere te e ciò che ti circonda a loro piacimento. La tua casa appartiene ai bulldozer ed alla dinamite, le tue città ed i campi profughi agli F-16 ed agli elicotteri da guerra. A Gaza i tuoi mezzi di sussistenza diminuiscono ogni giorno a causa di un impoverimento che e' deliberato quanto spietato. Non vi e' né fuga dalla disperazione né rifugio dal terrore. In nessun luogo ciò e' più evidente che a Rafah.
Rafah, una città con una popolazione di 120.000 individui (più piccola di Ramallah, Nablus, Gaza City ed Hebron), ha perso più abitanti che qualsiasi altra città dei Territori palestinesi occupati, nel corso della seconda Intifada. E' la più povera tra le città palestinesi, ed il suo distretto di Sahura e' la sezione più povera di Rafah. Lì, intere famiglie vivono assieme in baracche di una stanza fatte di ferro contorto con pavimenti sporchi e tetti di lame di metallo, cartone e incerate. I bambini corrono scalzi per strada, mal vestiti e malnutriti. In nessun luogo della Palestina si troveranno condizioni miserabili quanto quelle di Rafah, l'80% della cui popolazione e' costituita da profughi resi tali due o tre volte.
Dal 29 settembre 2000, l'esercito israeliano ha ucciso a Rafah 275 persone, più di tre dozzine delle quali dall'ottobre 2003. Settantasei di queste erano bambini. Ha distrutto un totale di 1.759 case, 430 delle quali dall'ottobre 2003, rendendo nuovamente profughi un totale di 12.643 residenti, 2.894 dallo scorso ottobre. La disoccupazione raggiunge il 70% a Rafah, con un tasso di povertà dell'83,4%. La malnutrizione affligge gran parte dei bambini di Rafah, così come il cosiddetto Disordine da Stress Post-traumatico. Dei parlamentari britannici in visita in Israele e nei territori Occupati hanno dichiarato: "Nei Territori di Gaza e della Cisgiordania abbiamo riscontrato tassi di malnutrizione simili a quelli dell'Africa sub-sahariana". L'economia palestinese e' collassata.
* * *
Said Zoroub guida un camioncino bianco con le parole "Municipalità di Rafah" dipinte in arabo ed inglese sulla portiera del guidatore, dono della Norvegia. Meno di un'ora dopo il mio arrivo a Rafah, Zoroub, il sindaco, riceve una chiamata urgente sul suo telefono mobile. Un bulldozer israeliano ha colpito una sorgente d'acqua sotterranea mentre demoliva delle case lungo il confine con l'Egitto. Mezza città e' senza rifornimenti idrici. Dal lato passeggeri del camioncino municipale, osservo l'ultimo danno.
Esteriormente imperturbabile, Zoroub pronuncia parole che smentiscono la sua calma: "Viviamo tutti i giorni in stato d'emergenza". Dall'altro lato della strada, le case e le costruzioni di Rafah sono tempestate di pallottole, come se soffrissero di una malattia contagiosa. Più ci avviciniamo, più devastate esse appaiono - sbriciolate, con veri e propri crateri laddove sono state colpite dai tanks in piena notte. Panni stesi ad asciugare pendono dalle finestre, mentre sui muri si rincorrono graffiti politici e poster di martiri. Il paesaggio della città e' caratterizzato da miseria e rovina. Il limite della città e' una terra di nessuno costituita da detriti calpestati mille volte dalle ruote dei cingolati che dominano questo luogo.
Pozzanghere, pietre e vetri rotti adornano il sentiero che costeggia le case del perimetro cittadino trasformate dall'esercito in caverne grigie ed aperte, troppo infide per vagarci a lungo. Sempre più bambini appaiono dai vicoli alla nostra sinistra e ci seguono con curiosità fino alla fine della strada. Uomini e donne escono per salutare il sindaco, mentre sentiamo il cigolio di un carro armato che si avvicina a noi, le mitragliette puntate contro. Un bulldozer spinge via mucchi di macerie e di spazzatura: altre case demolite e niente acqua a Rafah ovest fino a che le autorità israeliane non diano il permesso agli operai di riparare il danno senza il rischio che vengano sparati a vista. Un ragazzo indica un buco nel muro da cui posso scattare foto senza essere subito interrogata. Dallo stesso vantaggioso punto d'osservazione, i bambini guardano le demolizioni mentre procedono. Ho fatto solo due foto quando il sindaco mi dice di "andarcene via, e' pericoloso". E' giovedì pomeriggio, 15 gennaio 2004.
Vi sono alte torrette di controllo dell'esercito lungo il confine egiziano ed israeliano con Rafah e tra Rafah e l'insediamento di Gush Katif sulla sponda sud-orientale del Mar Mediterraneo. Le spiagge di Rafah sono off-limits per gli abitanti della città dall'esplosione della seconda Intifada, privati dell'unico sollievo che possiedono per evadere dall'insopportabile squallore della Striscia. Presso il bordo del distretto di Tel al-Sultan, un'area esposta alle torrette di controllo della colonia, il sindaco prende velocità, sottolieando quanto, in quel momento, siamo vulnerabili. Molta gente e' morta qui, colpita da pallottole sparate a casaccio dai soldati delle torrette. I ragazzini locali, tuttavia, cercano ancora di usare l'area come campo di calcio improvvisato, nei giorni di "quiete".
Più in là, Zoroub indica un orfanotrofio e nuove case prefabbricate costruite dall'UNRWA dopo le incursioni israeliane dello scorso ottobre, che hanno lasciato 1.780 senzatetto, 15 morti e dozzine di feriti. C'e' gente ancora accampata in tende, mentre le costruzioni pubbliche sono state trasformate in rifugi d'emergenza. A nord-ovest della città ci sono due nuove sorgenti d'acqua ricostruite con fondi provenienti dalla Norvegia, dopo che l'IDF le distrusse nel gennaio del 2003. Un custode ci mostra fori di proiettile freschi sui muri del suo appartamentino e sulla grande targa blu appuntata al recinto esterno e che annuncia il dono di una nuova fonte idrica.
Il giorno prima, a Gerusalemme, un certo Roger di Save The Children mi aveva detto di non andare a Rafah, perché non era un luogo sicuro. "Sono stato lì proprio due settimane e lavoravo ad un progetto idrico. Stavo parlando ad un uomo che maneggiava una pompa d'acqua. Indossava un elmetto ed una divisa che lo identificavano come un operatore cittadino ma era così esposto, capisci - in piena vista delle torrette di controllo. Due giorni dopo fu ammazzato".
Sulla strada di ritorno per la casa del sindaco, attraversiamo campi di garofani multicolore e ci fermiamo ad una primitiva fattoria per la coltivazione di fiori. I fiori sono tagliati e legati assieme per essere esportati in Olanda - se le autorità portuali israeliane lo permetteranno. Se non decideranno entro pochi giorni, essi seccheranno e moriranno persino se messi in camion refrigerati. Un operaio della fattoria mi offre un mazzetto di garofani rossi. Al ritorno, Zoroub mi indica i campi con la mano: "Volevo che lei vedesse qualcosa di romantico a Rafah".
* * *
Sono partita per Rafah l'11 gennaio 2004, come parte di una delegazione di tre persone in rappresentanza del Madison-Rafah Sister City Project, un'organizzazione fondata nel febbraio 2003 per creare legami di amicizia personali tra le nostre due comunità. Dalla morte di Rachel Corrie, Tom Hurndall e James Miller per mano dei militari israeliani a Rafah la primavera scorsa, entrare nella striscia di Gaza e' divenuto sempre più difficile. Mentre cercavo di ottenere il permesso per entrare nella striscia questo gennaio, mi e' parso subito chiaro che agli internazionali e' negato l'accesso per due motivi chiave: nascondere quanto più e' possibile ciò che avviene quotidianamente ed evitare ulteriori "incidenti" - ad esempio l'assassinio di internazionali che potrebbe generare nuovamente pubblicità non gradita.
Le forze militari israeliane uccidono quasi ogni giorno palestinesi in circostanze orribili e crudeli. Eppure quasi 3.000 morti palestinesi non hanno alcun effetto sulla maggioranza degli americani - gran parte dei quali non ha la più pallida idea di ciò che sta accadendo nei territori palestinesi occupati - sebbene il loro governo ne sia direttamente responsabile. Quando muore un internazionale, tuttavia, specie una giovane ragazza americana come Rachel Corrie il cui obiettivo a Rafah era quello di impegnarsi in una resistenza non violenta, diviene necessario controllare il danno - nonostante i concertati tentativi di qualcuno di dipingere Rachel come una "simpatizzante del terrorismo".
Il 4 gennaio 2004, Israele ha ideato una nuova serie di restrizioni per isolare ulteriormente il popolo palestinese ed impedire, per quanto possibile, un monitoraggio internazionale formale o informale della situazione nei territori. Alle persone che desiderino entrare a Gaza "e' richiesto di riempire una domanda d'ingresso formale e di presentarla all'Ufficio Relazioni Estere della Coordination & Liaison Administration della Striscia di Gaza, situato al valico di Eretz. La procedura di accoglienza delle richieste implica un'attesa minima di cinque giorni lavorativi, ma le richieste possono essere respinte a piacimento e spesso richiedono tentativi ripetuti e frustranti. Queste restrizioni seguono altre già emanate in precedenza, come l'obbligo da parte dei visitatori di Gaza di firmare un documento in cui si esonera Israele da qualsiasi responsabilità per uccisioni o ferimenti causati dai militari israeliani. Talvolta, ma non sempre, le organizzazioni umanitarie ed i giornalisti stranieri sono esonerati. Tuttavia, l'effetto a breve termine di tale politica e' stato quello di scoraggiare molti, tranne i più determinati, dall'andare a Gaza e a volte in Cisgiordania. L'effetto a lungo termine potrebbe essere molto più devastante.
* * *
La notte in cui sono arrivata, le strade di Gaza City erano inondate dalle piogge torrenziali e dalle acque che sgorgavano dalle inutili grondaie danneggiate. Le auto erano ferme in mezzo alla strada a causa dell'acqua alta e gli uomini sistemavano assi di legno prese dai marciapiedi per aiutarle a venire fuori dalle aree meno profonde. L'elettricità era andata via in buona parte della città, rendendola, al buio, più che mai devastata. Il tassista mi fermò presso il Deira Hotel, augurandomi di trovare una stanza libera. In effetti, l'hotel era vuoto. Il receptionist mi spiegò che i giornalisti avevano disdetto le prenotazioni per quella sera a causa della chiusura del valico di Eretz. Con sua grande sorpresa, gli spiegai che venivo da Eretz. Ora, quel bellissimo hotel stile villa era tutto per me. La mattina seguente partii per Rafah ed attraversai il checkpoint di Deir al-Balah con relativa facilità: aspettammo solo 45 minuti prima di ottenere il permesso per proseguire - un'operazione che, di solito, richiede tra le due ore ed i quattro giorni di attesa.
I proiettili ci piovevano addosso come chicchi di grandine, quando lasciammo la casa di Naila quella prima sera a Rafah. Per due ore sedetti insieme a Sumaya, la moglie del sindaco, le sue sorelle ed i loro bambini. Alcuni di essi cominciarono a litigare quando l'elettricità andò via e restammo al buio. Il bimbo più piccolo, Karim, lanciò un urlo e sua madre si precipitò a prendere una lampada a pile. L'elettricità, come l'acqua e le linee telefoniche, non e' mai data per scontata.
Decidemmo di uscire quando tornò la luce e Talal, l'amico del sindaco, ci venne a prendere. Dovemmo però aspettare all'interno a causa dei proiettili che continuavano a piovere contro di noi nella notte dalla torretta di controllo. Fossi stata sola, non sarei mai uscita, ma per gli altri la routine prevedeva un'attesa di qualche minuto, un salto in macchina e via, accoccolati al di sotto dell'altezza del finestrino. Per strada, due auto, protagoniste della stessa scena da noi recitata, avevano avuto una collisione. I guidatori, avviliti, erano fermi nel mezzo della strada, ispezionando i danni.
Tornata a casa del sindaco, ricevetti una telefonata di Laura Gordon, l'ultima attivista americana dell'ISM a Rafah. Sarei andata in ufficio ad incontrare i suoi amici? Stavano organizzando una manifestazione per venerdì. Avevo sentito che Tom Hurndall era morto? Dieci mesi in coma e, finalmente, la pace. Erano già stati stampati i poster col volto del nuovo martire, da incollare sui muri di Rafah assieme agli altri. I manifestanti, la mattina seguente, avrebbero marciato a Keer Street, nel luogo in cui Tom fu sparato in testa per aver tentato di proteggere due bambini dalla linea del fuoco.
I tanks rotolano per Keer Street quando ha inizio la grande invasione di Rafah. E' una strada "bidon-ville" che termina in un grande mucchio di terra, blocchi di pietra e macerie nella terra di nessuno tra essa e le postazioni dell'esercito israeliano. Venerdì mattina stetti in piedi su quel mucchio di terra, osservando l'altra fortezza che ospita le guardie israeliane. Non riuscii a vederle ma sentii i loro occhi puntati verso di noi. I manifestanti, quasi tutti bambini, indossavano bersagli sulle magliette e portavano striscioni: "Palestinesi ed internazionali sono obiettivo dell'esercito israeliano". Una bambina mi indicò un piccolo foro sul muro di una costruzione alla fine di Keer Street, il segno di una pallottola: quella, mi fu detto, che aveva ucciso Tom Hurndall.
Ho sentito molti dire che la Striscia di Gaza e' una prigione a cielo aperto. I suoi abitanti vivono circondati da recinzioni elettriche, censori mobili, filo spinato e barriere metalliche, eccetto che lungo la costa, controllata di continuo da navi da guerra israeliane. Israele impedisce agli abitanti di Gaza di lasciare il territorio e persino di viaggiare liberamente entro il suo perimetro, dal momento che esso e' controllato da numerosi checkpoints che possono trasformare un viaggio di mezz'ora in un incubo lungo quattro giorni. I militari possono decidere di isolare intere sezioni di Gaza a loro piacimento, mentre gli abitanti di 17 colonie illegali, che si spartiscono oltre un quarto di questo minuscolo territorio, posono viaggiare avanti e indietro in Israele attraverso le strade per soli ebrei.
* * * Quando i tanks israeliani penetrarono rullando nelle strade di Rafah, lo scorso ottobre, i media occidentali riportarono che essi erano alla ricerca di tunnel che collegavano le case di Rafah all'Egitto per il passaggio delle armi. La leadership palestinese "era incapace di smantellare le infrastrutture del terrorismo", e quindi Israele doveva provvedere da sé. Queste dichiarazioni presuppongono l'idea che noi possiamo accettare senza battere ciglio che tali tunnel e tali armi possano rappresentare una seria minaccia al terrificante arsenale bellico di Israele, e che l'operazione di ricerca di tali tunnel preveda necessariamente la distruzione delle case e di tutti i possedimenti di circa 2000 persone. Metterle in dubbio metterebbe a rischio la logica di un'occupazione perdurante e della grande "guerra al terrorismo" che gli americani ed i loro alleati israeliani devono combattere assieme. Porterebbe alla verosimile conclusione che il livello di morte e distruzione inflitto da Israele a Rafah fa parte del piano israeliano di "ripulire" - a qualsiasi costo - una vasta area del confine tra Rafah ed Egitto per trasformarla in una zona militare inaccessibile sotto diretto controllo israeliano, terrorizzando ed intimidendo la popolazione palestinese. La creazione di una zona militare chiusa rimuoverebbe l'ultimo confine internazionale tra il territorio palestinese ed un paese che non sia Israele, garantendo la messa in quarantena perpetua della striscia di Gaza. Completerebbe inoltre la distruzione dell'economia di Gaza, dal momento che, per ragioni pratiche, cesserebbe il commercio con l'Egitto. Farebbe avanzare il processo di graduale spostamento interno dalle regioni del confine ai già traboccanti campi profughi e alle città interne. La devastazione e l'implosione di un'intera società sarebbe accelerata con il beneplacito degli Stati Uniti.
Subito dopo le incursioni di ottobre, Amnesty International emanò un comunicato, in cui definiva "crimini di guerra" le azioni di Israele e chiedeva che venisse bloccata l'estensiva demolizione delle case palestinesi. Due settimane di distruzioni, espropriazioni e morte, durante le quali Israele aveva trovato tre tunnel e nessuna arma.
* * * Le notti di Rafah sono scandite dal fuoco dei carri armati e delle mitragliatrici. Ho sentito le pallottole rimbombare per sei ore consecutive fuori della mia finestra. Ogni tanto un'esplosione non identificata interrompeva la sparatoria, una pausa silenziosa si insinuava fino al cielo, poi la routine ricominciava. Ma il silenzio non era assoluto: da lontano si sentiva il lavorio incessante delle macchine da guerra; bulldozer che divoravano i margini della città.
Il mattino del 17 gennaio, Arij Zoroub bussò alla mia porta per assicurarsi che stessi bene. Voleva sapere se avessi avuto paura. Le dissi che ero arrabbiata. Come potevo spiegare la sensazione di essere trasportata in un mondo da incubo, in cui si aspetta che la prossima esplosione ti farà saltare in aria il muro - e quasi lo desideri, per mettere fine al tuo impotente isolamento; che, nella tua mente, ti trovi nell'ombra di quelle case già esplose, in cui gli esausti partigiani rispondono al fuoco dell'esercito e preghi che colpiscano i loro bersagli?
Sul tetto della casa del sindaco, Arij osserva le case dietro di noi per ispezionare i danni subiti durante la notte. Il consueto paesaggio lunare si spalanca di fronte a me come gli occhi di un uomo morto. Altre case sono andate, e parte di una moschea e' stata distrutta. Altre dozzine di persone profughe. Un chiaro messaggio da parte di Israele: vi distruggeremo, se non in morte, in vita.
Nelle due settimane successive alla mia partenza da Rafah, altre 30 case sono svanite e quasi 600 persone "dislocate". Altri sette morti, incluso un bambino, ed altre due vittime degli "assassini mirati" di Israele. Entrambi erano disarmati allorché sono stati uccisi. Un foto-giornalista mi ha inviato le immagini dell'ultima violenza. Sono le immagini che meglio riassumono la vita a Rafah, il genere di immagini che ingombrano la mia memoria quando rievoco la mia breve sosta di gennaio, anche dopo le ore trascorse in visita alla municipalità, ai centri giovanili, alle organizzazioni femminili, ai ministeri della Sanità e dell'Istruzione, alle commissioni popolari dei rifugiati ed al centro di riabilitazione per sordi; dopo cioè giorni di conversazioni e di appunti presi, nel tentativo di costruire ponti tra le comunità.
Quando cercai di lasciare Gaza attraverso il valico di Eretz, la sera del 17 gennaio, i soldati israeliani mi ordinarono di fermarmi prima di oltrepassare l'ultima barricata. Aspettai per oltre due ore al buio, circondata da blocchi di cemento armato. Sapevo che, se mi fossi mossa, sarei stata sparata. Urlai ripetutamente ai militari chiusi nel bunker del checkpoint di lasciarmi passare perché avevo un volo in partenza. Le mie urla erano salutate da commenti sarcastici e minacce: "Eretz e' chiusa, via da qui" e "ti abbiamo già sentita: ora, silenzio". Solo dopo aver gridato ripetutamente che ero una cittadina americana e che dovevo partire mi fu finalmente detto come procedere attraverso il cancello elettronico di sicurezza. Al finestrino del bunker, un soldatino con l'elmetto afferrò il mio passaporto e lo timbrò con stizza, dichiarando che non aveva potuto lasciarmi passare prima di aver ottenuto il permesso dall'autorità di grado più alto. Una voce dietro di lui echeggiò debolmente: "Siamo solo piccole viti di un grande ingranaggio". Che siano questi gli anni delle giustificazioni per gli orrori dell'occupazione israeliana?
Ed ora un necessario inciso. E' stato detto molto a proposito del piano di Sharon per evacuare i 17 insediamenti colonici di Gaza. In realtà le colonie sono 23, come ha sottolineato Amira Hass in un meraviglioso articolo su Ha'aretz lo scorso 13 febbraio. Ciò che ha detto Sharon era: "Ho dato l'ordine di pianificare l'evacuazione di 17 insediamenti nella striscia di Gaza". L'ordine di pianificare l'evacuazione non e' l'ordine di evacuare, che e' ancora di là da venire. Nondimeno, molti sanno da anni che Israele non ha affatto "bisogno" di Gaza, e che la rinuncia ad alcuni insediamenti nella Striscia può fornire dei benefici strategici ad Israele, desideroso di annettere più terra palestinese in Cisgiordania con l'approvazione di Washington. Invero, c'e' chi dice che la Cisgiordania potrebbe essere la ricompensa che Sharon si aspetta per aver "rinunciato" a Gaza.
La mossa di Sharon e', inoltre, con tutta probabilità, uno stratagemma per apparire conciliatorio durante la sua prossima visita a Washington, per convogliare l'attenzione interna verso la crisi palestinese e distoglierla dagli scandali che stanno colpendo il governo Sharon, e, forse, un tentativo di esplorare un governo di unità con i laburisti. Potrebbe essere anche un nuovo tentativo di dividere ciò che resta della leadership palestinese entro le enclavi rimaste. E' del tutto inverosimile la pretesa che l'evacuazione delle colonie di Gaza possa rendere più semplice la vita degli abitanti palestinesi, poiché Gaza era e resta circondata e controllata militarmente dall'esercito.
In realtà vi sono grosse probabilità che la situazione economica e sociale di Gaza continui a deteriorarsi e che cresca l'estremismo all'interno di tutte le fazioni politiche.
Jennifer Loewenstein e' una giornalista freelance ed attivista per i diritti umani. Ha lavorato al Mezan Center for Human Rights di Gaza per 5 mesi nel 2002. Nel febbraio 2003, Jennifer ha fondato il Progetto di Gemellaggio tra Madison e Rafah ed ha visitato Rafah nel gennaio 2004 con la prima delegazione in visita alla città. Insegna all'Università di Wisconsin-Madison.
da counterpunch.org
Un cuore non può bastare per due.
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janet
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Posted - 24 April 2004 : 02:04:06
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Verità suicide di Ran HaCohen
Utilizzando un titolo appositamente rivelatore ("Bugie suicide"), Thomas Friedman, del New York Times ci espone la sua distorta visione della realtà del Medio Oriente.
Il breve articolo di Friedman e' pieno di difetti ma, dal momento che non e' tipo da prendere troppo sul serio, non mi disturberò a rispondere alla sua infinitamente riciclata leggenda a proposito della cosiddetta "generosa offerta" rifiutata dai palestinesi (confutata molto tempo fa persino dall'assistente speciale di Clinton, Robert Malley. Vedi New York Review of Books, 9.8.2001), né a commentare la sua tronfia e futile fantasia su "una lotta palestinese non violenta, alla Gandhi": chiunque segua da vicino la lotta palestinese sa perfettamente che qualsiasi dimostrazione palestinese non violenta e' stata sempre accolta automaticamente dallo spietato fuoco israeliano.
Mi vorrei soffermare, invece, sul punto cruciale della manipolazione di Friedman, che consiste nel focalizzarsi sugli attacchi suicidi palestinesi. Friedman scrive: "I palestinesi sono così accecati dalla loro rabbia narcisistica da aver perso di vista la verità basilare su cui e' fondata la civiltà: sulla santità di ogni vita umana, a cominciare dalla propria".
Questa frase e' colma di demagogia maligna. La "santità di ogni vita umana" può cominciare con molte cose ma certamente non comincia con la propria vita. Ciò che la frase mette in evidenza non e' "la rabbia narcisistica palestinese", ma il cieco narcisismo dello stesso Friedman, che egoisticamente si preoccupa di sé stesso, prima che di tutto il resto. Ciò può essere bello per lui, ma una persona del genere non ha alcun diritto di fare prediche morali a nessuno.
Per ciò che concerne la vita degli altri, le cose non potrebbero essere più chiare. Nessun sistema morale permette l'assassinio. Non tocca a te mettere fine alla vita di un altro. Questa e' una delle ragioni per cui solo pochi paesi al mondo continuano a praticare la pena di morte, inclusi gli Stati Uniti. Eccetto questi pochi paesi, tutti gli altri hanno integrato la "santità di ogni vita umana" nel loro sistema legale e proibiscono - almeno dal punto di vista individuale - che una persona metta fine alla vita di un'altra.
Sul suicidio
Ma chi e' l'arbitro della propria esistenza? Differentemente dall'assassinio, la questione del suicidio e' moralmente e filosoficamente controversa. Le tre religioni monoteiste proibiscono il suicidio fine a sé stesso, ma si ricordi il primo kamikaze della storia, il biblico Sansone, considerato un eroe dal Cristianesimo e dal Giudaismo, e che ha inaugurato una lunga tradizione di martiri. [...]
Ad ogni modo, quasi tutti i liberali, oggi, sostengono che il suicidio non e' un crimine. Sebbene alcuni sistemi legali lo proibiscano formalmente, non ho mai sentito di qualcuno che sia stato punito per un tentativo di suicidio. In effetti, un tema scottante della legislazione attuale e' l'eutanasia per i malati terminali ma qui la questione non e' il loro diritto a commettere suicidio, bensì il diritto ad essere assistiti da uno staff medico durante.
Sedici secoli prima di Hume, il filosofo Epicuro mostrò profonda comprensione delle cause che potevano spingere al suicidio. Vi sono limiti a ciò che possiamo sopportare in questa vita, egli arguì, e dunque quando le cose divengono intollerabili si può desiderare di mettere fine ai propri giorni. "C'e' fumo nella stanza? Se ce n'e' poco, rimango. Se e' troppo, vado via. Dovete ricordarlo e mantenere la porta aperta". E' precisamente il caso della disperazione palestinese. Le stanze palestinesi sono piene di fumo, e gas lacrimogeni, e lacrime, e sangue. Possa Thomas Friedman non sperimentare mai neppure una minuscola frazione della disperazione palestinese, che lui, in maniera così spietata, pone tra due trattini.
Sulle bombe
Una volta stabilito che il suicidio in sé non e' un delitto, e che la vita di ogni palestinese appartiene a lui o a lei (non a Thomas Friedman) e che ciascuno può fare della sua vita ciò che crede, incluso mettervi fine, cosa resta delle argomentazioni di Friedman? Non molto. Se vi capitasse di leggere il suo articolo, ricordatevene, e vedrete il pallone di Friedman richiudersi nelle banalità. Le bombe umane sono solo un'arma, né migliore né peggiore delle altre. Friedman ha ragione: i palestinesi hanno trovato il punto debole di Israele. Ma trovare il punto debole del nemico e' il nocciolo della lotta, non e' uno scoop del New York Times.
Una volta caduta la difettosa "accusa" di suicidio, diviene ovvio l'errore morale delle bombe umane: uccidono civili. Tuttavia non tutti i kamikaze hanno ucciso civili: molti di essi si lasciano esplodere tra militari d'occupazione, molti prendono di mira i coloni, la cui innocenza e' molto, molto opinabile. La presenza dei coloni nei territori occupati potrebbe non giustificare il loro assassinio, ma pone seri dubbi su chi ne sia responsabile: i palestinesi, che legittimamente combattono contro l'occupazione, o, piuttosto, Israele, che sposta i suoi civili nei territori illegalmente occupati, contravvenendo alla legge ed alle convenzioni internazionali ed esponendoli al rischio di rappresaglie palestinesi?
I demonizzatori di professione, come Thomas Friedman, lavorano duramente per convincerci delle loro bugie suicide, come quella secondo cui i kamikaze sono "una nuova forma di guerra" peculiare ai palestinesi. Dubito fortemente che il termine kamikaze sia di origine palestinese. Non vi erano kamikaze palestinesi in giro nel 1991, quando Rajib Ghandi fu assassinato da un kamikaze; in realtà, la persona accusata di aver lanciato più attacchi suicidi di chiunque altra al mondo non e' Yasser Arafat (il cui coinvolgimento in tali attacchi e' fortemente dubbio e potrebbe senz'altro essere una fabbricazione israeliana), ma Velupillai Prabhakaran, leader delle Tigri Tamil per la Liberazione.
Condotta contro gli occupati, la lotta dei kamikaze ha la legge internazionale dalla sua parte. Sì: la legge internazionale riconosce il diritto di un popolo sotto occupazione ad usare la forza contro gli oppressori, sia all'interno che all'esterno dei territori occupati. Proprio grazie a questo principio della Convenzione Internazionale dell'Aja del 1907, confermata dal Tribunale di Norimberga dopo la II Guerra Mondiale, questa determinazione fu essenziale per cancellare l'accusa di "terrorismo" fatta dalle forze di occupazione naziste alla resistenza clandestina ed ai partigiani. Il Tribunale di Norimberga confermò senza equivoci che i combattenti della resistenza all'occupazione agivano in accordo con le regole della legge internazionale. Una verità che non sentiamo mai nei media di oggi.
Ma e' vero: alcuni kamikaze hanno ucciso civili, e questo e' un fatto reprensibile.
Imperdonabile, certo, come il bombardamento americano di Hiroshima (ma paragoniamone i numeri). Come il bombardamento americano del rifugio a Baghdad nel 1991, che incenerì 400 civili iracheni. Come il bombardamento israeliano al rifugio di Kafr Qana nel 1996, che fece a pezzi oltre 100 civili libanesi. Imperdonabile, come le azioni quotidiane di Israele nei territori occupati, in cui vengono presi di mira civili innocenti. Come le tante azioni americane in Afghanistan, in Iraq ed altrove, in cui vengono storpiati e massacrati innumerevoli civili innocenti. La questione dell'intenzionalità e' una scusa ben misera: se entri a Ramallah con 150 carri armati, impedisci il rifornimento d'acqua e di mezzi di soccorso, se lanci tonnellate di bombe in Afghanistan ed in Iraq, non dirmi che non intendevi fare del male ai civili.
Sulla disumanizzazione
La parzialità di Friedman e' ora chiara. Avrebbe potuto accusare i palestinesi di colpire civili innocenti. Questa sarebbe stata un'accusa ineccepibile, da estendere anche ai cecchini che prendono di mira la popolazione palestinese e scappano. Invece non l'ha fatto. Perché?
Naturalmente, Friedman e' frustrato dal fatto che la potenza israelo-americana abbia dei limiti. Il mondo sarebbe tanto più bello se la forza avesse il potere di abolire i diritti! Ahimè, nemmeno la bomba più intelligente può sconfiggere lo spirito umano. Le armi dei poveri potranno non essere asettiche e fotogeniche come le nostre, ma possono far male. Il capitalismo non e' perfetto. I profitti della distruzione sono a volta indipendenti dagli investimenti: se sei investito da un economico scooter o da una costosa limousine, non vivrai abbastanza da poterne dire la differenza. Fatto triste, questo, per un fanatico della globalizzazione come Friedman.
Ma c'e' di più. L'interesse di Friedman per i kamikaze ha l'obiettivo di disumanizzare i palestinesi. Accusandoli di disprezzare "la santità di ogni vita umana, a cominciare dalla propria", Friedman vuole asserire che i palestinesi non si curano della loro esistenza. Fingendo così di tenere alla loro vita molto più di quanto essi stessi facciano, Friedman suggerisce: "In primo luogo, Israele deve ottenere una schiacciante vittoria militare". Bravo. Guardate quanto rapidamente il grande moralista Friedman traduce la "santità di ogni vita umana" in una "schiacciante vittoria militare". Tutto in nome della "verità basilare su cui e' fondata la civiltà", cos'altro?
Colpite dunque quegli esseri non umani, dice l'illuminato umanista. E poi? Ovvio: poi, "Israele dirà ai palestinesi che e' pronto a riesumare i negoziati". Ho dedicato un intero articolo - Contro i Negoziati - a questa falsa percezione: alla pericolosa idea che i bagni di sangue possano portare alla pace ed ai "negoziati" come parola in codice per perpetuare l'occupazione. Non lo ripeterò qui.
Per concludere
Le bombe umane non sono differenti, dal punto di vista morale, da tutte le altre armi. Fare del male a degli innocenti e' moralmente intollerabile, ma il suicidio in sé non può essere condannato. La lotta palestinese e' moralmente giustificata, sebbene alcune delle sue manifestazioni siano discutibili. Ridurre questa lotta alla questione dei kamikaze e' solo un altro modo per disumanizzare i palestinesi e legittimarne l'assassinio, invece di rimuovere la causa della loro terribile disperazione. Disumanizzare un intero popolo nel nome della "santità di ogni vita umana", come ha fatto Thomas Friedman, e' un esempio particolarmente repellente di demagogia.
Ran HaCohen e' nato in Olanda e cresciuto in Israele. Insegna Letterature Comparate all'Università di Tel Aviv ed e' critico letterario per il quotidiano Yedioth Ahronot. Scrive occasionalmente per Antiwar
da Antiwar.com
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janet
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Posted - 08 May 2004 : 15:43:13
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Solidarietà & Impegno civile ---------------------------------
Un ulivo in Palestina
A Gaza e in Cisgiordania le terre palestinesi sono state e continuano ad essere confiscate dal governo israeliano per costruire illegalmente nuovi insediamenti per nuovi coloni.
Altre terre sono confiscate "per ragioni di sicurezza" e per la costruzione di strade vietate ai palestinesi.
I palestinesi sono chiusi ed immobilizzati nei loro villaggi e non gli è concesso il diritto di accedere alle loro terre, di coltivare e raccoglierne i frutti. L'economia palestinese è allo stremo.
Da ottobre 2000 centinaia di migliaia di alberi nei territori palestinesi sono stata abbattuti e sradicati da soldati e coloni israeliani, più di 200.000 erano alberi di olive.
La politica di distruzione del mercato delle olive in Palestina è stata sistematica: si stima che più di 10 milioni di dollari sono stati investiti da Israele per danneggiare le terre Palestinesi negli ultimi due anni e molti altri per impedire agli agricoltori di raggiungere le loro terre. E questa politica è destinata ad avere un impatto per generazioni.
Quest'anno invitiamo tutti quanti ad unirsi a noi per la raccolta delle olive in Palestina. Attraverso la presenza di attivisti internazionali possiamo aiutare contadini ed agricoltori a raggiungere le loro terre evitando violenze, abusi e brutalità.
Con il vostro aiuto e la vostra partecipazione si può far vedere al mondo che l'ingiustizia dell'occupazione israeliana toglie la vita a palestinesi ed israeliani.
Il Servizio Civile Internazionale aderisce alla campagna di osservazione civile lanciata dall' International Solidarity Movement nel periodo della raccolta delle olive in Palestina e ricerca volontari ed attivisti disponibili a partire tra 26 ottobre e l'11 novembre.
L'International Solidarity Movement e la protezione civile del popolo palestinese (ISM) è un movimento pacifista costituitosi all'inizio della seconda Intifada. Al movimento partecipano attivisti palestinesi, israeliani e internazionali con l'obiettivo di promuovere la protezione del popolo palestinese attraverso l'azione diretta non-violenta della società civile.
Le attività del movimento sono finalizzate a ridurre la violazione quotidiana dei diritti umani di base dei palestinesi, cercare di garantire un informazione corretta, rompere l'isolamento al quale i palestinesi sono costretti attraverso la presenza di gruppi di attivisti internazionali.
L'ultima iniziativa dell' ISM che si è svolta nei mesi estiva è stata la campagna "Freedom Summer" alla quale hanno partecipato circa 500 attivisti internazionali che hanno portato viveri alle famiglie bloccate in casa dal coprifuoco, scortato le ambulanze ed i medici negli ospedali, presidiato i campi profughi, hanno partecipato e sostenuto le manifestazioni di protesta contro l'occupazione, hanno documentato violenze e violazioni dei diritti umani. La presenza internazionale nei Territori Palestinesi è un deterrente importante agli abusi e le violenze quotidiane esercitate dall'esercito israeliano sui palestinesi e tale importanza è evidenziata anche dal fatto che dall'inizio dell'Intifada Israele ha respinto alle frontiere 2000 attivisti internazionali.
Campagna per la raccolta delle olive in Palestina
Come partecipare
La partecipazione alla campagna è aperta a tutti e si puo' aderire individualmente o in gruppo. Maggiori informazioni e moduli per l'iscrizione sono reperibili sul sito dell'International Solidarity Movement.
Il Servizio Civile Internazionale organizzerà una partenza di gruppo il 26 ottobre ed una il 2 novembre.
E' possibile partecipare all'iniziativa per una o due settimane.
Il seminario di formazione si svolgerà a Roma il 12 e il 13 ottobre.
Per informazioni ed iscrizioni: SCI Tel: 06.5580661 – 5580644 –5577326 Fax 065585268
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janet
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Posted - 11 June 2004 : 00:47:39
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Figli di un dio minore a proposito della "Conferenza di Berlino sull'Anti-semitismo" DI ISRAEL SHAMIR
Vostre Eccellenze, questa conferenza e' davvero un evento storico, estremamente importante, che può essere paragonato all'Editto di Milano di Costantino o con il Concilio di Nicea della Chiesa. Non sono certo che possiate pienamente comprendere ciò che avete fatto, e qual e' il significato delle parole in codice "lotta contro l'anti-semitismo".
Analizziamo prima cosa essa NON e'. La vostra "lotta contro l'anti-semitismo" non e' la difesa di una piccola nazione perseguitata; se lo fosse, difendereste gli assediati palestinesi. Non e' una lotta contro il razzismo, poiché voi supportate l'apartheid razzista in Palestina.
Non e' una lotta contro la discriminazione anti-ebraica, poiché essa non esiste e, da Mosca a Parigi a New York, gli ebrei sono impiegati in ogni sorta di posizione di prestigio.
Non e' la difesa della vita ebraica, poiché l'unico ebreo ferito recentemente in Europa si era procurato la ferita volontariamente nel tentativo di incriminare un musulmano. Non e' la difesa della proprietà ebraica, poiché gli ebrei sono l'unico popolo sulla terra ad aver riguadagnato ogni pezzo di proprietà perduto dai loro antenati, da Berlino a Baghdad. La vostra "lotta contro l'anti-semitismo" non ha nulla a che vedere con l'anti-semitismo storico da tempo defunto, e con le teorie razziali anti-ebraiche. Ci sono semiti e discendenti di ebrei in entrambi i lati del conflitto.
La vostra "lotta contro l'anti-semitismo", concettualmente teologica, e' basata sull'annoso dilemma: "Gli uomini nascono tutti uguali, ugualmente importanti ed ugualmente vicini a Dio? O vi e' un popolo speciale agli occhi di Dio, ed il resto dell'umanità può essere definita "figlia di un dio minore"? La prima alternativa fu offerta da San Paolo. La seconda era la bandiera di Caifa. San Paolo era "anti-semita" agli occhi di Caifa nella misura in cui negava la superiorità del "popolo eletto.
Oggi, Eccellenze, avete fatto la vostra scelta e, come Ponzio Pilato dei tempi che furono, avete preferito stare dalla parte di Caifa. Non importa che i palestinesi siano murati vivi dietro un muro di cemento armato di 25 piedi; che gli oliveti siano estirpati e le sorgenti prosciugate; ciò che importa e' che "Israele ed i suoi leaders non siano demonizzati o infamati", secondo le parole del vostro collega Colin Powell. Non si tratta più di una questione politica, ma teologica, poiché la fede nella supremazia israeliana e' la dottrina ufficiale della Pax Americana, come il Cristianesimo lo era nell'Impero Romano ai tempi di Costantino il Grande. Per esemplificare la spiegazione, avete proibito l'uso dei simboli nazisti in riferimento alla politica di Israele, ma avete permesso la sovrapposizione della svastica di Hitler sulla croce di Cristo.
Vi siete sottomessi alla nuova religione portata in Europa da oltreoceano con i carri armati, i dollari ed i film americani, alla nuova religione dei pochi Eletti, dei panorami creati dall'uomo, del liberismo economico; dell'alienazione e dello sradicamento, della negazione di sacralità e solidarietà verso i non-Eletti. Avete proclamato oggi che le idee ed i valori sionisti sono il fondamento del Nuovo Ordine Mondiale, che vi siete impegnati a sostenere molto più che l'ideale cristiano di uguaglianza e solidarietà. Avete riportato l'Europa all'eresia sconfessata a Nicea ed avete umiliato Cristo. Il vostro eccessivo ed anormale zelo verso il benessere degli israeliani e' il simbolo della vostra sottomissione.
Probabilmente vi considerate "realisti e pragmatici", gente che si cura poco di queste astrusità religiose. Se foste realisti e pragmatici, considerereste cosa significhi per VOI - se non vi interessa dei palestinesi e degli iracheni - l'accettazione di questa supremazia. Apro il Jerusalem Post del 22.04.04 e leggo le parole dei vostri nuovi superiori:
"Il mio problema non e' solo la Germania. E' tutto ciò che e' tedesco, dovunque. Non litigo né mi arrabbio. Ho semplicemente spazzato via la Germania ed il suo popolo dal mio mappamondo", scrive Matti Golan, ex redattore capo del quotidiano israeliano Ha'aretz e del Globes, il giornale dell'elite economica israeliana. Matti Golan non e' un attivista, né uno di quei fanatici religiosi che negano che i goyim discendano da Adamo. In verità, potrei riempire pagine intere con citazioni simili - e peggiori - tratte dai libri di Khabbad o dai maghi della Cabala. Ma Golan non e' né un cabalista né un estremista, ma fa parte dell'intelligentsia ebraica non religiosa più influente. Quando quest'articolo fu discusso sull' israelforum.com di internet, una risposta tipica fu: "Matti Golan e' un giornalista importante. Egli rappresenta le idee condivise dalla maggioranza degli israeliani su quest'argomento. Incluso me".
Se fossi tedesco, ci penserei due volte prima di fornire al paese di Matti Golan sottomarini nucleari, affinché lui non "spazzi via la Germania ed il suo popolo dal nostro mappamondo". Credo che Golan stesse incitando all'odio razziale ed al genocidio. Potreste discuterne, ma preferireste condannare piuttosto Mahathir o un attivista di pace che si batte per l'uguaglianza in Palestina. Il vostro collega, il presidente tedesco Johannes Rau, ha detto: "Tutti sanno che dietro le critiche alla politica dei governi israeliani negli ultimi decenni vi e' un massiccio anti-semitismo". Lo ha detto una settimana dopo che la piccola Asma, 4 anni, soffocò a causa del gas israeliano gettato nella sua casa a Gaza, il 23 aprile 2004, un anno dopo che Rachel Corrie fu schiacciata da un bulldozer israeliano. In questo modo, chiunque dica "anti-semitismo" e' d'accordo con l'assassinio di Asma e Rachel.
Causate un doppio standard e ciò e' pericoloso anche per voi. Nel popolare quotidiano israeliano Ma'ariv (24/04/04), Dan Margalit, una superstar del giornalismo israeliano, scrive dell'uomo che cercò di mettervi in guardia sui gravi pericoli del potenziale nucleare di Israele: "Vanunu si atteggia ad un sofferente Mel Gibson, un nuovo Gesù che soffre in carcere a causa della sua conversione al Cristianesimo. Devo ammettere che e' stato discriminato per motivi religiosi, ma in maniera positiva. Vanunu e' ancora vivo nonostante il suo tradimento, il fatto di aver spiato e la sua conversione: Israele lo ha trattato da ebreo. Tutti sanno cosa gli avrebbe fatto il Mossad se egli fosse stato un tecnico nucleare tedesco al servizio di uno stato arabo. I nomi di questi ultimi sono scolpiti sulle pietre tombali dei cimiteri europei". (Non cercate questa frase sul sito in inglese di Ma'ariv: e' stata edulcorata). Il messaggio e' chiaro: il sangue di un goy non ha lo stesso valore di quello di un israeliano. E voi lo avete accettato.
Israele si vanta di aver assassinato tecnici e scienziati tedeschi, e la Germania non si lamenta. Un coraggioso e nobile ebreo americano, John Sack, ha pubblicato un libr sulle atrocità commesse nei tardi anni '40 contro gente innocente di etnia tedesca - ma la Germania non ha investigato sulle gravi accuse di Sack, non ha chiesto che i criminali venissero processati; il libro di Sack non e' stato neppure pubblicato in Germania. I sionisti hanno ammesso l'avvelenamento di massa di prigionieri di guerra tedeschi ed il tentativo di assassinare milioni di civili tedeschi innocenti, e la Germania non solo non ha investigato, ma ha trasferito in Israele denaro ed equipaggiamento militare.
Avete accettato il vostro status di seconda classe di figli di un dio minore. Non oggi - nell'epoca in cui commemorate Auschwitz e dimenticate il crudele olocausto di Dresda. Quando avete pianto le deportazioni degli ebrei ed avete ignorato le deportazioni di popoli di etnia tedesca attuate dai governi filo-sionisti di Polonia e Cecoslovacchia. Quando avete spinto per il disarmo dell'Iraq e avete fornito equipaggiamento nucleare a Dimona. Quando avete arrestato ed estradato i combattenti palestinesi e non avete chiesto l'estradizione del cittadino israeliano Solomon Morel, che torturò ed uccise migliaia di tedeschi. Quando avete processato gli editori del libro di Finkelstein, "L'industria dell'Olocausto" ed avete permesso ad agenti dell'ADL di marciare per le strade di Berlino con le bandiere d'Israele ed i ritratti del bombardiere Harris. Avete dimostrato che il vostro sangue vale meno. Non vi sorprendete se esso comincerà a scorrere quando le riserve palestinesi saranno terminate.
Personalmente, vi sono grato per ciò che avete fatto. Fino ad oggi, la lotta per l'uguaglianza in Palestina e' stata ostacolata da uomini e donne ben intenzionati, che non mettevano in dubbio la supremazia sionista in Europa e negli USA, ma erano, al contempo, inorriditi dal genocidio dei palestinesi. Essi lottano contro il Muro e contro le devastazioni a Gaza, ma si preoccupano di non essere accusati di "anti-semitismo". Credono che sia legittimo contrastare l'apartheid israeliano nel Nuovo Ordine Mondiale. Ora voi avete rimosso quest'ostacolo dimostrando che tutto ciò che accade in Palestina non e' un'aberrazione locale ma la pietra miliare della Pax Americana.
Facciamo in modo che sia lo schema locale che globale della supremazia israeliana cadano assieme, così che ebrei e gentili possano ancora una volta vivere assieme da uguali, in Palestina ed altrove.
Israel Shamir, Jaffa
da www.israelshamir.net
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janet
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Posted - 17 June 2004 : 00:35:32
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Zona d'ombra: Fine dell'arcobaleno di Gideon Levy - Ha'aretz, 2 giugno 2004
Una delle 120 case demolite da Israele nel campo profughi di Barasil apparteneva all'architetto Manal Awad. Questa e' la terza volta, dal 1948, che la sua famiglia rimane senzatetto - e la seconda volta in cui il responsabile e' Ariel Sharon.
Ora le 19 persone sono raccolte in un piccolo appartamento di due stanze e mezza appartenente ad una sorella, sul limite dell'area devastata del loro campo profughi. La tenda che svolazza nella brezza permette vedute intermittenti delle montagne di detriti in fondo alla strada. Questa e' la famiglia Awad: la madre, una vecchia zia, le figlie con le rispettive famiglie. Giovedì 20 maggio, due bulldozers si avvicinarono alla loro casa, minacciando di raderla al suolo con i suoi proprietari all'interno: Operazione Arcobaleno. L'85enne zia a stento riuscì ad uscirne. Dice che nel 1948, quando fu costretta a lasciare la sua prima casa, e nel 1972, quando l'esercito demolì nuovamente la sua casa, fu più facile, per lei - era ancora giovane, all'epoca. Una delle figlie, l'architetto Manal Awad, dice che non sono state distrutte solo muri di pietra, ma anche i ricordi - fotografie e libri andati perduti per sempre. Le sue sorelle cercarono di salvare il tavolino da lei disegnato, ma non poterono. Il tavolino fu schiacciato assieme a tutto il contenuto della casa. Tra le rovine, la sola cosa che ha potuto trovare e' stato il narghile nuovo comprato in Tunisia per suo fratello.
L'esercito israeliano ha fatto un lavoro accurato, qui: le case ed il loro contenuto sono state completamente rase al suolo. Qui e lì, si vedono parti di oggetti familiari - pezzi di abito, un bollitoio schiacciato, le pagine stracciate di un libro. Case intere sono state spazzate via dalla faccia della terra, per trasformarsi in montagne di rovine. Il Capo di Stato Maggiore, Moshe Ya'alon, ha detto, senza battere ciglio, che "12 case sono state demolite dall'inizio dell'operazione". Il comandante di plotone, Brigadiere Generale Shmuel Zakkai, lo ha corretto il giorno successivo, dicendo che il numero reale di case abbattute era 56.
Neanche questa cifra era corretta. Nel solo campo di Barasil, secondo Mustafa Ibrahim, un esperto investigatore della Commissione Palestinese per i Diritti Civili, sono state distrutte 120 case. Vedendo il luogo, e' difficile fare una conta, ma, dalle montagne di detriti, si comprende che le case demolite ammontano a molte dozzine. Le giustificazioni israeliane sui "tunnel usati per il passaggio delle armi" sono meno che credibili. La casa di famiglia degli Awad, ad esempio, e' a circa 800 metri di distanza dal "corridoio Filadelfia"; non vi sono tunnel a quella distanza. Questa e' demolizione per il solo gusto di farla, una campagna di vendetta punitiva contro innocenti, resi senzatetto per la seconda o terza volta.
Nell'Operazione "Scudo Difensivo", distruggemmo il centro del campo profughi di Jenin - 350 case - ma la distruzione era densa e concentrata. Ci fu una battaglia. Nell'Operazione Arcobaleno, abbiamo demolito case in ordine sparso, senza battaglia, sicché oggi il campo di Barasil appare come Sarajevo nel 1993. E' difficile trovare un filo logico nella campagna di demolizioni: un gruppo di case qui, un altro lì, questa casa sì e quella no, come se tutto fosse il risultato di un capriccio, più che di una pianificazione reale. Alle 120 case completamente distrutte, vanno aggiunte un numero simile di abitazioni parzialmente distrutte - per non menzionare le automobili schiacciate, le strade ed i servizi sradicati o la scuola Taha Hussein, parte della quale e' stata trasformata in rovine. I residenti descrivono di come i bulldozers arrivavano da tutti i lati; di come essi rimasero intrappolati nelle case, terrorizzati. (Uno di essi mi telefonò, in quel momento di orrore, e mi raccontò dei suoi vicini e dei loro 12 figli, intrappolati in una casa che stava per essere demolita, i quali chiedevano che qualcuno li aiutasse).
La scorsa domenica, molti giorni dopo la fine dell'operazione, come premio, abbiamo demolito altre 23 case nell'adiacente blocco J, con un'altra operazione dimenticata e senza nome che, senza dubbio, e' di estrema importanza per la sicurezza.
Manal Awad siede nel suo modesto ufficio nel quartiere Rimal di Gaza City, piangendo senza lacrime la sua casa demolita. Manal e' il direttore del Women's Mental Health Center di Gaza. Ha trent'anni, e' vestita con un'elegante giacchetta sportiva e parla inglese fluentemente. Era qui quando i bulldozers giunsero alla porta della casa di famiglia, dove erano sua madre, sua zia, e le sue sorelle. Prima che i bulldozers arrivassero, la famiglia aveva fatto uscire il fratello di Manal, ritenendo che, se ci fossero state solo donne in casa, questa sarebbe stata risparmiata.
"Non dimenticherò mai quel giorno. Mia sorella mi chiamò e mi disse che c'era un carro armato fuori di casa. Le dissi di non osare guardare dalla finestra. Abbiamo esperienza di persone sparate per aver guardato fuori della finestra. Alla radio, sentii che stavano cominciando a demolire le case con la gente all'interno. Avevamo paura che questa volta sarebbe stata peggiore delle altre, ma nei nostri sogni più brutti non avremmo immaginato che la casa sarebbe stata demolita. Cercai di rassicurare mia sorella, ma, quando la richiamai, mi disse che i bulldozers erano proprio di fronte a loro. Le dissi di uscire immediatamente dalla casa. Disse che la stanza degli ospiti stava già crollando. Avevano paura di uscire perché vi era un bulldozer davanti ed uno indietro, ed anche carri armati. Mia madre prese un martello e cercò di aprire un varco nella parete attraverso cui raggiungere i vicini. Mia sorella portò una scaletta a pioli affinché potessero uscirne. La mia vecchia zia, che cammina con difficoltà, riuscì a salire il primo paio di pioli, poi si fermò senza riuscire a fare un solo passo ancora. Disse che nel 1948 correva, ma adesso no. Fu spinta in alto da mia madre e dalle mie sorelle, mentre i vicini la raccolsero dall'altro lato e finalmente uscirono, non so come.
E' stata la prima volta in vita mia che ho sentito mia madre piangere così. Lei e' una donna forte e sensibile, ma non aveva mai pianto così. Nemmeno quando morì mio padre, 23 anni fa, e lei restò sola con sei figlie, un figlio ed una vecchia zia. Ha lottato per noi tutta la vita ed ora sentivo che lei aveva bisogno del mio supporto ed io non c'ero. Ero impotente. Non e' stato facile sentirla piangere al telefono. Mi disse: Non voglio uscire di casa. Queste sono le ultime parole che ho udito da lei. Mia sorella disse: "E' la fine. Stiamo andando via". Non sapevo cosa fosse accaduto loro, se fossero vive o morte. Ebbi la buona notizia solo un'ora dopo - erano a casa dei vicini. Pensavano che il bulldozer si sarebbe fermato, invece esso prese a colpire anche l'abitazione dei vicini. Mia madre era furiosa ed urlava contro Sharon e Bush, mentre i bulldozer buttavano giù la casa in ci avevano trovato riparo. Mia sorella uscì agitando una bandiera bianca. Cercai fi immaginare la strada, per capire dove potevano essere andate, con i carri armati tutt'attorno. Temevo per le loro vite. Tutte quelle immagini mi tornano sempre in mente.
Nel 1948, fummo costretti a lasciare il nostro villaggio presso Ramle per prendere rifugio in una caverna. Nel 1972, Sharon demolì la nostra casa nel campo di Shabura, quando ero molto piccola. Questa e' la terza casa. Mia madre e' una donna forte, ma ora e' spezzata. E' la fine, per lei. Lei sognava sempre la sua prima casa, ma era legata anche a quella nel campo. Ora nulla ha più senso. La sua vita e' stata inutile. Sperava che il nostro destino fosse diverso. Pace. Beh, forse non pace, ma almeno una vita migliore.
Non ero con loro, ma ho provato ciò che esse hanno provato. Ho perso tutti i miei ricordi. Una casa non e' fatta solo di mura. Si possono comprare mobili nuovi, un nuovo frigorifero. Ma non e' questo. Le fotografie familiari - tutte sono un ricordo per me. Le foto dei nostri cari, le nostre gioie, i nostri dolori - tutto distrutto. Avevamo una collezione di libri. Non era grande, ma aveva tanto significato, per noi. Ognuno aveva il suo libro preferito. Non c'e' più nulla. La casa e' distrutta. La vita e' distrutta. Trent'anni di vita spazzati via.
Quando finalmente sono riuscita ad andare a Rafah, nel week-end, una mia amica si e' offerta si accompagnarmi. Le avevo detto che non ce n'era bisogno, che ero forte, ma lei mi ha avvertito che per me sarebbe stato uno shock. Ha avuto ragione. Nell'intera strada, non vi era più nulla. Vivevamo nella parte vecchia di Barasil, ed avevamo sempre detto che delle demolizioni sentivamo solo il rumore, che non sarebbero mai giunti fino a noi, che eravamo così lontani del confine. Per qualche ragione, hanno iniziato proprio dalla nostra casa. E' passata una settimana, ed ho la sensazione che le cose siano sempre più difficili. Pensavo che mi sarei ripresa. Era una semplice casa di profughi, ma all'interno, per me, era bellissima. Sono stata in tutto il mondo ed ho visto case sorprendenti, ma mi mancherà per sempre "quella".
Qui e' dove sorgeva la casa di famiglia. Un mucchio di pietre. La mamma di Manal, Shukrin, emerge dalle rovine - una piccola donna vestita di nero - e c'e' anche il fratello di Manal. E questa era la casa dei Mansur, e la casa degli Hassan e degli Hamad. Più nulla. La vecchia zia, Alia, siede sul pavimento della casa che e' il loro rifugio temporaneo, fissa il tappeto, con l'espressione mascherata. Manal l'ha portata a controllo da un medico a Gaza, il quale ha detto che la sua spina dorsale non e' stata danneggiata durante la fuga sulla scaletta.
Alia ricorda vividamente la prima fuga, da Abu Shusha, e la seconda, dal campo di Shabura, quando arrivò Sharon ad "aprire il corridoio". Adesso e' la stessa cosa. Alia racconta i suoi primi giorni trascorsi nella caverna dopo aver lasciato Abu Shusha, e di come arrivarono faticosamente prima a Yabneh e poi a Gaza. Sua nipote Shukrin aggiunge qualche dettaglio. Parlano con pazienza, i segni del recente trauma sono ancora molto visibili. E' accaduto per due volte nel mese di maggio - maggio 1948 e maggio 2004. Solo nel 1972 accadde in dicembre.
Yusef, il marito di una delle sorelle nella cui casa hanno trovato riparo, sorride: non ha ancora contato quante persone abitano oggi nella sua minuscola casa. "Come sardine, ma almeno siamo assieme". Stamani, quando un bulldozer si ' avvicinato alla casa per ripulire le macerie al lato opposto della strada, la sua bambina e' scoppiata in lacrime. Credeva che fossero tornati gli israeliani a demolire qualcos'altro.
Usciamo fuori per passeggiare lungo una pila di macerie. Su entrambi i lati della strada polverosa, vi e' distruzione. In una delle pile che una volta era una casa, bambini scavano alla ricerca di pezzi di metallo da scaricare su un carretto. L'appartamento di Yusef Bahlul (che, una volta, lavorava per la Sonol di Gaza), l'ultimo di una costruzione che torreggiava su questo campo, e' stato colpito direttamente da un missile, e' semidistrutto e coperto di fuliggine. Qui, tutti parlano l'ebraico, dal tempo in cui lavoravano all'interno di Israele.
Un tavolino porta-TV sta in piedi in un salotto le cui pareti sono tutte crollate. Nel campo di Barasil, una vecchietta cerca di spingere un termosifone schiacciato. La sua forza e' svanita. Prevale una calma post-disastro. Il corridoio Filadelfia e' visibile in fondo alla strada, e ogni tanto, passa un minaccioso carro armato israeliano. La puzza di scarichi fognari bruciati pervade l'aria, mentre i bambini mostrano l'ultima cosa trovata tra le cataste di macerie.
Un cuore non può bastare per due. |
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coccolina
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Posted - 08 July 2004 : 12:16:37
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la questione arabo israeliana , l'ho portata nella mia tesina di maturità intitolata conflittualità religiosa e terrorismo.
questo fiore prendilo non indugiare, temo che esso appassisca e cada nella polvere(tagore) Ne con te , ne senza di te nella mia vita c'è scampo con te perchè mi uccidi senza te perchè muoio. |
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Moonlight
Utente Master
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Posted - 08 July 2004 : 20:05:38
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Sono veramente senza parole... Le immagini e le frasi di questo post mi hanno toccata molto. Povera gente. |
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