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 Un angolo di cielo 2 poesie nel mondo
 PALESTINA.
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janet
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Posted - 18 December 2003 :  01:49:40  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando




roshhas2-RoshHashana'-IlCapodannoEbraico





Un cuore non può bastare per due.






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janet
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Posted - 04 January 2004 :  23:10:15  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando



Un'occupazione che nega ogni diritto
di Leah Tsemel







I miei genitori lasciarono l'Europa poco prima dell'Olocausto, a causa del quale persero molti parenti. Vennero in quella parte del mondo che oggi si chiama Israele, e che era chiamata Palestina, per assicurarmi una vita migliore in un "nostro" stato. Dopo quasi 60 anni, posso dire che non ci sono riusciti; al contrario, sembra che i miei genitori e tutti coloro che vollero creare lo stato d'Israele non capirono che e' impossibile costruire un futuro sulle rovine dell'oppressione.

Difendo i palestinesi nelle corti israeliane da quasi 30 anni e, nonostante tutti i miei sforzi, non sono mai riuscita a far comprendere ai giudici questa semplice verità, siano essi dei tribunali militari che della Corte Suprema di giustizia. La situazione si deteriora sempre più e l'anno scorso, come in tutti i passati 25 anni, ho fatto tre passi indietro ogni passo fatto in avanti.
Il noto autore israeliano David Grossman ha scritto del lavaggio subito dalle parole nell'occupazione israeliana. "Occupazione", in ebraico, diviene "liberazione" o "salvezza". "Colonizzazione" diviene "insediamento pacifico". "Assassinio" diviene "bersaglio". I palestinesi hanno risposto a questi eufemismi radicalizzando il loro linguaggio. I miei clienti, una volta, venivano nel mio ufficio di Gerusalemme e parlavano di soldati e coloni; oggi parlano di "al-yahud", gli ebrei. "Gli ebrei mi hanno confiscato la carta d'identità", "gli ebrei mi hanno picchiato", "gli ebrei hanno distrutto questo e quello". Ciò mi spaventa. Se lo stato d'Israele viene identificato con tutti gli ebrei della terra, e questi vengono visti come soldati e coloni, bisogna stare molto attenti.

Un bambino palestinese che oggi dice al-yahud, intendendo gli ebrei, intendendo la gente in uniforme, svilupperà un fanatismo nazionalistico che si sposerà al fanatismo religioso giovanile. Ma un fanatismo religioso ancora peggiore sta emergendo da parte ebraica. La giovane generazione degli ebrei israeliani vuole bandire gli arabi. Vediamo slogans in ebraico sui muri delle città che dicono "Fuori gli arabi" o "Morte agli arabi". Siamo arrivati al punto in cui il governo israeliano dibatte apertamente su cosa fare di Yasser Arafat, il presidente eletto dei palestinesi: lo uccidiamo? lo deportiamo? optiamo per l' "elezione" di un altro presidente palestinese più utile, debole abbastanza da darci tutto ciò che vogliamo?

Le vittime principali dell'occupazione e dell'oppressione sono i

bambini. Le vecchie leggi mandatarie britanniche sono ancora in vigore. Sono leggi d'oppressione che permettono ad ogni potenza occupante di imporre punizioni collettive. Recentemente ho perso una causa. Avevo cercato di impedire la distruzione della casa di un giovane, un kamikaze palestinese che si era fatto esplodere, uccidendo otto militari di una base presso Tel Aviv. Secondo la legge mandataria britannica, la casa di una persona colpevole di un atto di "terrorismo" deve essere distrutta. Quando ho chiamato la famiglia per dire che avevamo perso, la mamma del kamikaze mi ha detto: "Sapevo di non avere speranze. Abbiamo già evacuato la casa".


Solo di rado abbiamo il tempo di andare in tribunale in questi casi. Le demolizioni di solito puniscono un'intera famiglia. Molto spesso vengono condotte senza avvertimento. "Avete cinque minuti di tempo per uscire di casa", e' tutto ciò che viene loro concesso. I demolitori sfasciano tutto - abiti, mobili. Chiedo spesso alle famiglie cos'e' che prendono in quei cinque minuti ed esse rispondono: "Per prima cosa, i certificati scolastici dei bambini". Il loro ottimismo e' meraviglioso.

I figli dei combattenti, dei "terroristi palestinesi", restano segnati a vita. Sotto occupazione militare, non potranno mai lasciare il paese, né spostarsi in altre città, né studiare altrove. Non possono neppure visitare i loro genitori in carcere.
La punizione estrema per le famiglie dei "terroristi" e' costringerle ad andare via. Dall'inizio dell'ultima intifada, c'e' stato coprifuoco totale in ogni città e villaggio palestinese dei territori occupati, mentre i carri armati israeliani entravano ed uscivano a loro piacimento. Per i bambini palestinesi e' diventato uno sport oltrepassare colline, montagne, barriere ed ostacoli che Israele innalza per impedire gli spostamenti tra villaggi e città.

Ora Sharon sta costruendo una barriera - no, un muro - tra Israele e Palestina. Questo muro non e' un confine, non corre lungo le frontiere del 1967. E' un muro che intende stabilire l'apartheid tra le due popolazioni e rubare ai palestinesi ogni piccola parte di territorio agricolo non ancora rubato dagli insediamenti ebraici nei territori occupati ed annetterla ad Israele.
A volte si vedono scene buffe o commoventi, madri che si arrampicano sulle pareti di cemento armato o sui recinti. Molto più spesso si odono storie tristi, come quella di alcuni soldati israeliani che impedirono il passaggio ad una giovane palestinese che doveva partorire. Il bambino morì.

L'oppressione e l'umiliazione sono fardelli pesanti. Per farsi visitare in un ospedale cittadino, un bambino dei dintorni di Ramallah deve camminare per ore insieme a suo padre, per poi imbattersi in un blocco stradale. Secondo la loro cultura, il padre ha un'immagine di autorità, ed il bambino lo vede umiliarsi a chiedere il permesso di passare a soldatini stranieri. Che tipo d'immagine dei loro genitori svilupperanno questi bambini?
Poi c'e' l'assassinio dei bambini. Recentemente un bimbo di 10 anni ha lanciato un sasso ad un soldato di un checkpoint presso Gerusalemme ed e' stato ucciso. Una bomba da una tonnellata lanciata da un aereo israeliano su Gaza City, la città più densamente popolata al mondo, uccise 16 bambini. Mohammed Durra, il bambino morto tra le braccia di suo padre all'inizio dell'intifada, tre anni fa, e' più di un simbolo: e' una realtà quotidiana. [...]

L'altro giorno, al confine tra Gerusalemme est ed ovest, ho visto 150 vecchietti palestinesi in un parco. Erano tutti della Cisgiordania e la polizia si rifiutava di lasciarli entrare in città - o non avevano i permessi o la polizia non riconosceva i permessi che avevano. Mi sono avvicinata, con il mio solito ottimismo, pensano: sono una donna, bianca, ebrea, avvocato, posso risolvere tutto, e ho cercato di parlare ai soldati ed alla polizia. I vecchietti restarono seduti tranquillamente. Erano stati obbligati a togliere le batterie dai loro cellulari ed era stato loro ordinato di non parlare. Mi sono sentita stupida. Avevano compreso la situazione molto meglio di me. Sapevano che avrebbero pagato un prezzo per il solo fatto di rispondermi; sapevano già che il mio intervento era inutile. I poteri arbitrari di soldati e poliziotti sono molto maggiori di quelli di qualsiasi sistema legale io possa rappresentare. Ho pensato: come si sarebbe sentito Primo Levi in questo momento, quando un altro popolo viene oppresso dagli ebrei?

L'ex primo ministro israeliano Golda Meir disse che aveva degli incubi, poiché i palestinesi si riproducevano troppo velocemente: 20 anni fa, la sua dichiarazione fece scandalo. Il 29 agosto 2003, la Knesset israeliana ha varato una legge: "In caso di matrimonio tra una israeliana ed un palestinese dei territori occupati, lo sposo non potrà entrare in Israele, e tutti i figli nati da tale matrimonio non saranno registrati negli anagrafi israeliani a meno che non siano registrati entro un anno dalla nascita". Abbiamo cercato con ogni mezzo di contrastare questa politica, che può essere solo definita razzista.

I bambini palestinesi, frutto di questa guerra, forniscono i kamikaze. Io rappresento coloro che non sono morti e conosco coloro che sono morti, quindi parlo con cognizione. Essi non sono morti per le 70 vergini loro promesse allorché diverranno shahid (martiri), e non sono né costretti né plagiati. Questi giovani, di tutti i settori della società, scelgono di morire perché non hanno speranza. Sentono che non hanno nulla da perdere e forse solo gloria da guadagnare. E' terribile una società che produce bambini che desiderano la morte, e' terribile ciò che sta accadendo nella nostra società, in cui coloni piazzano una macchina piena di esplosivo fuori di una scuola elementare femminile palestinese di Gerusalemme. Solo per caso essa fu scoperta.

L'uccisione di bambini e' una sorta di ossessione. Dalla scorsa intifada ad oggi, sono morti 700 bambini palestinesi al di sotto dei 16 anni e 100 israeliani. Solo negli ultimi tre anni, 382 bambini palestinesi sono stati uccisi dai soldati o dai coloni a fronte di 79 bambini israeliani.
La memoria dell'Olocausto - "il mondo ci odia, siamo sempre stati le vittime" - si e' offuscata nel nuovo vittimismo israeliano - "siamo vittime perché i palestinesi ci uccidono". Questo paragone e' inaccettabile. E' falso. Eravamo vittime ma ora rendiamo vittime altra gente. Dopo 35 anni di occupazione, c'e' una seconda generazione di coloni che invocano la Bibbia quando dicono "Non ci caccerete da qui". Dopo il 1967 una giovane generazione di militari israeliani si interrogò su cosa stesse facendo e si chiese: abbiamo il diritto di conquistare la terra di un altro popolo? Ora non ci sono più domande. I soldatini diciottenni vengono contaminati dall'esercito: tutti sono stati ad un checkpoint, tutti hanno fatto irruzione in una casa, di notte, e svegliato un'intera famiglia per arrestarne dei membri. C'e' una piccola minoranza, che aumenta lentamente, che si rifiuta di servire nei territori occupati. Un piccolo - ma crescente - numero di israeliani dice che non vuole essere coinvolto.

La speranza arriva da quegli eroici genitori palestinesi che, nonostante l'occupazione, crescono i loro figli parlando delle differenze che esistono tra un israeliano e l'altro, che non vedono tutti noi come dei demoni, che insegnano ai loro bambini a giudicare la gente secondo ciò che fa e non secondo ciò che e' o il luogo da cui proviene.
Vorrei dire a questi genitori palestinesi di essere pazienti ed ottimisti. Di preparare la prossima generazione, perché nel futuro vi e' una promessa.






Vorrei ricordare a quei genitori israeliani che lottano per la pace, che essi hanno già vinto una battaglia. Le madri israeliane appartenenti ad un'organizzazione chiamata Le Quattro Madri hanno contribuito a che l'esercito israeliano uscisse dal Libano. Un'altra organizzazione, Donne in Nero, manifesta contro l'occupazione, ogni settimana, da 20 anni. Io dico loro: vinceranno. Un altro gruppo di donne monitora le atrocità commesse ai checkpoints contro i palestinesi e dicono ai militari ed ai palestinesi: "Non abbiamo colpa di tutto ciò: siamo contro".

Nurit Peled, il cui padre fu un generale dell'esercito, e' un'attivista per la pace. La sua figlia adolescente restò uccisa quando un giovane palestinese si fece esplodere a Gerusalemme. Scegliendo la strada della pace, Peled si e' ritrovata in un'organizzazione che riunisce i genitori di vittime palestinesi ed israeliane. Nel ricevere il premio Sacharov al Parlamento Europeo, nel 2001, fece un discorso molto toccante su Abramo, padre di Isacco ed Ismaele (simboli delle due nazioni del giudaismo e degli arabi). Abramo voleva sacrificare suo figlio per dimostrare a Dio quanta fiducia avesse in Lui, ma Dio glielo proibì. Peled disse: "Non vogliamo che il nostro pianeta divenga un regno di bambini morti. Dobbiamo alzare la voce, la voce delle madri, e costringere al silenzio tutte le altre. Dobbiamo fare in modo che tutti ascoltino la voce di Dio che disse ad Abramo: "Non lasciare che la tua mano colpisca il bambino".




Leah Tsemel e' un'avvocatessa israeliana che lavora a Gerusalemme. Questa e' una versione stampata del suo discorso sui diritti umani dei bambini alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia

da Znet
6 dicembre 2003







Un cuore non può bastare per due.













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janet
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Posted - 04 January 2004 :  23:17:44  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando





BUON ANNO NUOVO!








Quello che si e' appena concluso e' stato un anno drammatico che si conclude nel peggiore dei modi: migliaia e migliaia di morti e feriti in un Iran piegato da un catastrofico terremoto che ha spazzato via un gioiello dell'intera umanità, portandosi via vite umane a valanga; distruzioni ambientali in gran parte della terra, incidenti, guerra conclamata e minacce di guerra in Asia Centrale.

Su tutto, lo spettro di un anno nuovo che sarà "gravido di avvenimenti spiacevoli ma necessari per la nostra sicurezza", come i criminali alla guida della superpotenza ci dicono. E Dio sa quanta inquietudine ci procurino tali parole da parte di un presidente che ha già dato oltremodo prova di irresponsabilità e di cinismo, al pari di tutti i membri della lobby da guerra fredda che guida attualmente gli USA.

Dalle ceneri di questo 2003, che ha visto decine di migliaia di vite innocenti spezzarsi tragicamente a causa della follia, della demenza, della sete di vendetta, del gusto della vittoria facile proprie dell'essere umano, speriamo possa nascere una nuova alba foriera di avvenimenti positivi e gioiosi per questo povero pianeta, costretto a sostenere il peso dei nostri misfatti. Toccato il fondo, non si può che risalire.

E noi speriamo davvero che l'anno 2004 sia più fortunato e felice per troppi popoli che, nel corso degli anni precedenti, non hanno visto che accumularsi lutti, dolori, devastazioni. Auguri alla Palestina violata ed insanguinata, all'Afghanistan sepolto dalle macerie e scosso dalle privazioni, al popolo iracheno, spazzato da bombe a frammentazione e proiettili all'uranio impoverito, colonizzato, stuprato nella sua storia e nella sua cultura, piegato dalla miseria ed ostaggio di un esercito "liberatore" e di multinazionali fameliche che ne stanno depredando le risorse, all'Iran colpito, alla Siria minacciata, all'Africa piegata dall'AIDS ed alla deriva, a tutto il sud del mondo ostaggio di fame, sfruttamento e violazioni. Auguri a tutti i fratelli musulmani vilipesi, ingiustamente accusati e costretti alla difensiva a causa della loro fede.


Auguri anche a noi che, dall'opulenza delle nostre città ricche e fredde, non sempre ricordiamo che gran parte dei popoli della terra soffre e lotta quotidianamente per assicurarci questo tenore di vita.

Buon anno a tutti!

Felicità ed auguri di benessere da

www.arabcomint.com







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janet
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Posted - 04 January 2004 :  23:31:06  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando
Disarmo e dissuasione


Da un articolo di Matti Golan, gia' caporedattore di Ha'aretz e Globes
2 gennaio 2004

La Libia si dichiara disposta a disfarsi delle sue armi di distruzione di massa e si impegna a non fabbricarne piu' in futuro. Prima o poi l'Iran imbocchera' la stessa strada e il Pakistan potrebbe seguirli. Dopo tutto, l'esempio dell'Iraq e' ancora fresco nella mente di chi governa questi paesi.
E' del tutto ovvio, quindi, che i paesi arabi a cui viene chiesto di disfarsi delle armi di sterminio tentino ora di dirigere l'attenzione su Israele chiedendo: "Perche' noi si' e loro no? Perche' Israele non dovrebbe fare la stessa cosa?"
Capita di rado che un argomento apparentemente cosi' logico sia anche invece cosi' sbagliato. Apparentemente, infatti, sembra la cosa piu' logica del mondo: come si puo' sostenere che armi pericolose nelle mani di un paese non siano altrettanto pericolose nelle mani di un altro paese? E invece e' proprio cosi'.
Quello che noi israeliani dobbiamo dire chiaro e tondo al resto del mondo e' che la nostra posizione non e' la stessa dei paesi arabi, semplicemente perche' noi non abbiamo, ne' abbiamo mai avuto l'intenzione di distruggere nessun altro paese: non abbiamo nessun motivo per farlo e non siamo il tipo di gente che fa queste cose.
La verita' e' che ci siamo gia' trovati in situazioni di pericolo per la nostra sopravvivenza, situazioni in cui l'impiego dell'arma nucleare e' stato preso in considerazione. Ma non e' mai stato fatto. Nel nostro lessico non esiste nulla che equivalga al grido di battaglia arabo: "itbah al yahud", massacriamo gli ebrei.
Fin dall'inizio tutta la questione nucleare in Israele e' nata per un unico scopo: difendersi. Cio' comporta anche un equilibrio della deterrenza. Se non avessimo avuto queste armi, probabilmente Israele non esisterebbe gia' piu'. I paesi arabi potrebbero averci gia' distrutto. Cio' che li dissuade piu' di ogni altra cosa e' la convinzione che Israele possa reagire con una risposta nucleare.
In effetti, tutti coloro che desiderano la pace in Medio Oriente dovrebbero sostenere il continuo possesso di armi nucleari da parte di Israele. Perche' se Israele non le avesse, nessun paese arabo o islamico, Egitto e Giordania compresi, avrebbe piu' interesse a parlare di pace. La loro disponibilita' alla pace, nella misura in cui esiste, nasce solo dall'aver accettato l'esistenza dello Stato di Israele e dall'aver accettato il fatto che non possono cancellarlo dalla faccia della terra. E questo dato di fatto, per i paesi arabi e musulmani, deriva direttamente dalla convinzione che Israele abbia le armi nucleari. […]
Chi afferma che la stessa regola sulle armi nucleari deve valere per Israele e per i paesi musulmani di fatto indirizza questa regione verso una deflagrazione.
Alla domanda, poi, come possiamo essere cosi' sicuri che le armi nelle nostre mani non saranno mai usate impropriamente, dobbiamo rispondere in modo franco: la nostra fiducia nasce dal fatto che Israele non e' come i paesi circostanti, e chi dice una cosa diversa dice una falsita'. Per i paesi arabi le armi nucleari sono armi di distruzione. Per Israele, sono armi di difesa che hanno reso possibile la nostra sopravvivenza fino a oggi.
Permettere a certi paesi arabi e islamici di possedere armi nucleari equivale ad accettare la prospettiva di un "attentato suicida globale". Chiedere a Israele di disfarsi delle sue armi di dissuasione nucleare e' come chiedergli di accettare cortesemente il suicidio.
(Jerusalem Post, 31.12.03)







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janet
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Posted - 04 January 2004 :  23:33:51  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando


Prego, dopo di voi


Da un editoriale del Jerusalem Post
25 dicembre 2003

Ecco una domanda che ogni britannico rispettabile dovrebbe porsi questa settimana: "Se la Libia puo' farlo, perche' non puo' farlo la Gran Bretagna?"
Ci riferiamo, naturalmente, al recente annuncio da parte della Libia che intende rinunciare alle sue armi di distruzione di massa, programma nucleare compreso. E stiamo parafrasando un titolo del Guardian, che chiedeva: "Se la Libia puo' farlo, perche' non puo' farlo Israele?"
In effetti, entrambe le domande sono altrettanto appropriate, ed entrambe meritano una risposta analoga. L'opzione nucleare di Israele non e' una causa, bensì una conseguenza del fallimento dei programmi di non proliferazione. Israele cerca solo di difendere la propria sopravvivenza, e non minaccia nessun altro paese.
Il rifiuto di distinguere fra tipi di governi, tra regimi criminali da una parte e paesi che da quei regimi sono minacciati dall'altra: questo e' cio' che impedisce il pieno successo dei piani di non proliferazione nucleare.
Israele, in quanto paese probabilmente piu' di ogni altro minacciato dalla proliferazione nucleare, non assume solo una comoda posizione diplomatica quando dichiara, come dichiara, che preferirebbe un Medio Oriente privo di armi nucleari. Nel caso di Israele, cio' che e' necessario e' rendere questa regione un luogo meno denso di minacce per la sua stessa sopravvivenza: allora si' che seguiremmo volentieri l'esempio di quelle nazioni libere che non hanno bisogno di disporre di un deterrente nucleare, e che possono investire le loro limitate risorse negli aratri anziche' nelle spade. Fino ad allora, se Gran Bretagna e Francia, che stanno in Europa, sentono la necessita' di avere una forza nucleare, sicuramente ne abbiamo bisogno anche noi, qui in Medio Oriente.

(Jerusalem Post, 22.12.03)






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janet
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Posted - 13 January 2004 :  01:48:04  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando
Svuotando i palestinesi: un'allegoria

di M. Shahid Alam



Lo stupro/assassinio impunito di una ragazzina beduina del Negev, avvenuto nell'agosto del 1949, rappresenta l'agghiacciante allegoria dello stupro della Palestina, svuotata della sua storia, dei suoi luoghi, dei suoi abitanti e privata della possibilità di una narrativa indipendente, mentre il pugnale conficcato nel suo cuore da ottant'anni sta per spezzarlo, nell'indifferenza generale.



"La Palestina appartiene agli arabi allo stesso modo in cui l'Inghilterra appartiene agli inglesi o la Francia ai francesi"- Gandhi [1]

"La Palestina sarà ebraica quanto l'Inghilterra e' inglese"- Chaim Weizman [2]



Il 29 ottobre 2003, un importante quotidiano israeliano, Ha'aretz, ha riportato un caso di stupro-assassinio avvenuto oltre 50 anni fa all'avamposto militare israeliano di Nirim, nel Negev. La vittima era una ragazza palestinese, appena adolescente o più giovane; i perpetratori di questo crimine erano membri dell'esercito israeliano [3]. Sei giorni dopo, il Guardian riportò anch'esso questo crimine, ma i giornali americani non ritennero la notizia degna di essere pubblicata [4]. Negli USA, la stampa preferisce proteggere Israele dalle notizie avverse.

Qual e' il significato di un singolo stupro/assassinio nella lunga e tortuosa storia di un popolo espropriato da un altro popolo? Nessuna espropriazione ha un'immagine piacevole. Per di più, la storia del dispossesso palestinese e' fuori dell'ordinario. E' fuori dell'ordinario perché essa ha comportato lo svuotamento completo di un popolo: la Palestina doveva essere svuotata della sua antica popolazione palestinese per fare posto agli ebrei. E' fuori dell'ordinario perché gran parte di questo svuotamento fu condensato in pochi mesi (del 1948) e non in decenni o secoli. E' fuori dell'ordinario perché lo stesso popolo che infliggeva lo svuotamento era stato a sua volta svuotato dei suoi spazi in Europa, quegli spazi che con il suo talento aveva contribuito a creare.

E' fuori dell'ordinario perché lo svuotamento, e la violenza che esso richiese, fu attentamente pianificato, orchestrato, giustificato, spiegato, scusato e, dopo il suo successo, celebrato e glorificato nei media israeliani ed occidentali.

Qual e' il significato di un singolo stupro/assassinio - mi chiedo ancora - nel mezzo dello svuotamento della Palestina, realizzato attraverso l'inganno delle dichiarazioni e la farsa delle leggi internazionali; attraverso guerre continue e opprimenti repressioni; attraverso il sostegno delle grandi potenze ed il supporto dell'ebraismo mondiale organizzato; attraverso le pulizie etniche, i massacri ed i villaggi cancellati; attraverso i bombardamenti di appartamenti, ospedali, scuole ed officine ridotti in cenere; attraverso gli insediamenti armati costruiti sulle cime delle colline; attraverso la demolizione delle case, i coprifuoco, gli assedi, le trincee e le strade by-pass che dividono le comunità; attraverso un milione di umiliazioni quotidiane a migliaia di checkpoint; ed ora, attraverso un gigantesco muro, serpeggiante, avanzante, sinistro, che sogna di succhiare l'ultima goccia di sangue dalle assediate comunità palestinesi della West Bank?

Forse questo singolo stupro/assassinio e' significativo. Lo svuotamento di un popolo significa necessariamente infliggere sofferenze su scala monumentale. I sionisti costruirono il loro stato ebraico distruggendo le vite di milioni di palestinesi di tre generazioni. La dimensione di questa sofferenza e' stata documentata nei rapporti e nelle statistiche dei villaggi distrutti, delle case demolite, delle donne, bambini ed uomini scacciati dalle loro case, derubati, incarcerati, bombardati, sparati, torturati ed uccisi. Tuttavia, le statistiche non raccontano le storie, non convogliano al lettore la sofferenza delle vittime. Così come l'Olocausto rivela il suo intento infernale attraverso immagini e racconti, così la narrativa palestinese deve essere trasmessa con immagini, metafore ed allegorie, ciascuna delle quali contiene in miniatura, nell'essenza, la grande sofferenza che i palestinesi sopportano da più di ottant'anni.

Dobbiamo dunque leggere la scoperta dello stupro/assassinio nel Negev fatta da Ha'aretz come un'allegoria del destino imposto dalle semi-divinità sioniste alla popolazione araba inferiore. Letto con comprensione, il rapporto rivela l'oscurità del cuore del progetto sionista, il suo razzismo, la sua ottusità morale, la sua cecità di fronte alla grave ingiustizia fatta ai palestinesi. Lo stupro/assassinio di un'ignota ragazza palestinese - una minorenne - da parte dei militari israeliani espone graficamente il contesto diseguale tra sionisti e palestinesi, con i sionisti decisi a scacciare i palestinesi dalla terra in cui intendevano restaurare uno stato ebraico morto da 1800 anni.

La sola documentazione scritta dello stupro/assassinio, prima dell'articolo di Ha'aretz, si trova nel diario di Davide Ben Gurion, il primo capo di governo israeliano. Egli fece un conciso ma espressivo riferimento all'episodio. "Fu deciso e portato a termine: la lavarono, le tagliarono i capelli, la stuprarono e l'uccisero" [5]. Ben Gurion sembrava descrivere un'operazione militare efficientemente portata a termine, secondo i piani, senza esitazioni e senza perdita di tempo. I verbi usati sono attivi: ci raccontano di uomini forti, determinati, fiduciosi del loro potere di decidere, eseguire, lavare, tagliare, stuprare ed uccidere. La fermezza e determinatezza delle loro azioni sono stupefacenti.

Il mattino del 12 agosto 1949, il comandante della pattuglia dell'avamposto militare di Nirim, nel Negev, il secondo tenente Moshe, organizzò una ronda assieme ad altri sei soldati. Durante il pattugliamento, spararono ed uccisero un palestinese che aveva lasciato cadere il suo fucile e stava correndo via. Più tardi, catturarono due palestinesi disarmati ed una ragazza. Gli uomini furono fatti andare via, dopo aver sparato al di sopra delle loro teste, mentre la ragazza fu portata all'avamposto di Nirim. La ronda aveva deciso che era "buona da f...". Sulla strada di ritorno a Nirim, la pattuglia sparò ed uccise sei cammelli, lasciandoli a decomporsi.


Popolazione del Negev

All'avamposto, mentre Moshe era via in un altro pattugliamento, il sergente del plotone, Michael, preparò la ragazza per lo stupro. Le tolse gli indumenti tradizionali, la costrinse a stare sotto un condotto d'acqua e la lavò con le sue mani, mentre gli altri guardavano. Dopo averla lavata, le fece indossare uno short ed un maglione e la portò in un capanno, dove la stuprò. Quando la ragazza raccontò a Moshe cosa era accaduto, questi ordinò ai suoi uomini di lavarla - ancora - "così che potesse essere pulita per essere f...".
I soldati le tagliarono i capelli, le lavarono la testa con del kerosene, la misero sotto la pompa dell'acqua e la riportarono nel capanno. Ora era pulita.

Più tardi, quello stesso giorno, i soldati dell'avamposto di Nirim si riunirono in una grande tenda per festeggiare la vigilia dello shabbath. Il comandante del plotone, Moshe, inaugurò lo shabbath benedicendo del vino, un soldato lesse un passo della Torah, e poi cantarono, mangiarono, bevvero e si divertirono. Prima che i festeggiamenti terminassero, Moshe chiese ai suoi uomini di decidere il destino della ragazza per votazione. Vi erano due opzioni: la prigioniera avrebbe potuto lavorare in cucina, o avrebbero potuto possederla. Il destino della giovane fu democraticamente deciso. I soldati cantarono: "Vogliamo f...". Il comandante Moshe approvò la scelta della maggioranza. Lui ed il suo segente entrarono per primi, lasciando la ragazza priva di sensi.


La mattina dopo, poiché la ragazza si lamentava, il comandante del plotone minacciò di ucciderla. Ed, effettivamente, ordinò poco dopo al sergente Michael di giustiziarla. Prima dell'esecuzione la spogliarono. Qualcuno rivoleva indietro i suoi shorts. Il sergente, accompagnato da un medico e da due soldati, portò la ragazza nel deserto e le sparò alla testa mentre questa cercava di scappare. Sopraffatto dalla pietà, solo nel caso in cui fosse viva e sentisse dolore, un soldato esplose qualche pallottola nel corpo della ragazza. Pulita, coi capelli tagliati, ripetutamente stuprata, la prigioniera palestinese giaceva morta in una fossa poco profonda.

Il secondo tenente Moshe quella stessa sera andò in macchina a Be'er Sheba per guardare un film. Al teatro, incontrò il suo comandante di battaglione, il maggiore Yehuda Drexler, che aveva ordinato che la prigioniera palestinese fosse riportata nel posto in cui era stata trovata. Quando il maggiore chiese al suo subordinato se lo avesse fatto lui, Moshe rispose: "L' hanno uccisa, era una vergogna sprecare del gas". Una vita palestinese non valeva un gallone di gas.

Quando il capitano Uri, comandante della compagnia, chiese al secondo tenente Moshe di spiegargli cosa fosse accaduto alla ragazza palestinese, ecco cosa quest'ultimo scrisse nel suo rapporto:
"Durante un pattugliamento il 12.8.49, mi imbattei in alcuni palestinesi nel territorio sotto il mio controllo, uno dei quali armato. Uccisi sul posto l'arabo armato e presi la sua arma. Presi prigioniera la donna. Durante quella prima notte, i soldati abusarono di lei ed il giorno seguente trovai opportuno rimuoverla dal mondo (enfasi aggiunta)."

Fu tutto. Fu sprezzante nella sua concisione, quasi che non valesse il suo tempo discutere dello stupro/assassinio di una palestinese. Tuttavia, se proprio insisti nel volere una spiegazione, eccola: abbiamo trovato una ragazza araba, l'abbiamo violentata e poi "ho trovato opportuno rimuoverla dal mondo".
E' quest'ultima frase ad essere ossessionante, imperiale, biblica, persino divina. Essa riassume il carattere di un'intera epoca, un'epoca imperialistica che si faceva vanto della sua razza superiore e della sua missione civilizzatrice. Un'epoca in cui molte nazioni europee "trovarono opportuno" conquistare, colonizzare, schiavizzare, sterminare, dislocare, "liberare" o "educare" il resto dell'umanità, chiunque fosse diverso per razza, cultura o religione. Le ferite inflitte ai nativi furono senza dubbio buone per essi, dal momento che nient'altro che bene poteva fluire da tali esseri superiori. Il sionismo e la sua creatura, Israele, non sono altro che fioriture tardive di quell'età imperiale.

Al processo per lo stupro/assassinio, tenuto in segreto quello stesso anno, il secondo tenente Moshe negò di aver violentato la ragazza. "Moralmente parlando", si giustificò, "era impossibile dormire con una ragazza così sporca". Probabilmente sapeva che quest'argomentazione aveva il suo peso. E' la premessa basilare di ogni missione civilizzatrice. "Il nativo e' sempre sporco, i suoi vestiti lerci, i suoi modi rozzi". C'e' un'altra distorsione, qui. "Non e' immorale lo stupro di una ragazza beduina del Negev, ma il fatto che essa fosse sporca". La Corte assolse Moshe dal reato di stupro, ma fu condannato a 15 anni per omicidio.

Gli fu però offerta una seconda possibilità di difesa. Egli disse ripetutamente alla Corte che il capitano Uri, uno dei comandanti della compagnia nel battaglione, gli aveva detto in privato che - riguardo agli arabi - avrebbe dovuto "uccidere, massacrare". La Corte rigettò questa accusa utilizzando una sua psicoanalisi. Scrissero i giudici: "La Corte ritiene che i termini "uccidere, massacrare" hanno origine da una psicosi che sembra aver attecchito nel sangue dell'ufficiale, con l'effetto che gli arabi dovevano essere massacrati indiscriminatamente". La Corte scelse di non contro-interrogare il capitano Uri su questo punto.

Il sergente Michael dichiarò che aveva solo eseguito gli ordini, giustiziando la ragazza. La Corte non gli credette, ma Michael ottenne comunque una pena molto leggera a causa delle "circostanze attenuanti". "In quel periodo vi era un generale sentimento di disprezzo per la vita dei palestinesi in generale e degli infiltrati in particolare, e talvolta avvenivano crimini gratuiti in questa sfera. Tutto ciò contribuì a creare un'atmosfera di "va bene qualsiasi cosa". Siamo convinti che questa atmosfera era presente anche all'avamposto di Nirim".
Anche i giudici di Norimberga avrebbero potuto considerare le medesime circostanze attenuanti, quando giudicarono i criminali nazisti. Dopo tutto, anche i nazisti operavano in un clima generale di "disprezzo per la vita degli ebrei". Fortunatamente, i giudici di Norimberga non usarono quel metro di giudizio.

Inoltre, quando Moshe accusò il capitano Uri di spingere "al massacro, all'assassinio" degli arabi, i giudici dichiararono che tale accusa era stata partorita da una mente psicotica. Allo stesso tempo, per giustificare le pene ridotte, dichiararono che in quel tempo esisteva " un generale sentimento di disprezzo per la vita dei palestinesi in generale". Quei giudici erano forse schizofrenici? O forse proteggevano dei loro simili?

Coloro che hanno familiarità con la tragedia del popolo palestinese avranno letto - come ho fatto io - negli eventi del 12 e del 13 agosto 1949 accaduti all'avamposto militare di Nirim, nel Negev palestinese, un'allegoria di quella tragedia. In due giorni, questa ragazza senza nome, una minorenne, soffrì il degrado, la vergogna, l'abuso, la violenza e, per ultimo, la morte, destino - figurato e, in molti casi reale - dei palestinesi e della loro terra da più di ottant'anni.

Tra le due cruenti narrative possono essere tracciati molti paralleli agghiaccianti; li vediamo nel rapimento della ragazza da parte di un plotone di soldati; nella decisione del comandante di deciderne il destino attraverso una votazione; nel destino inflitto alla ragazza con quel voto [usarla come serva o schiava sessuale]; nel fatto di averle strappato gli abiti tradizionali, tagliato i capelli, stuprata, con gli ufficiali che entravano per primi; nell'ordine di giustiziarla quando lei cominciò a lamentarsi; nel processo segreto intentato; nel linguaggio dell'ufficiale ("Trovai opportuno ..."); nell'assoluzione degli stupratori; nelle sentenze irrisorie; e nell'uso, da parte dei giudici, delle "circostanze attenuanti".


Ed ora i paralleli vengono sospinti verso una convergenza finale - l'obliterazione definitiva dell'esistenza nazionale palestinese, con la costruzione del muro di strangolamento; con livelli di disoccupazione che hanno raggiunto il 70%; con la malnutrizione tra i bambini palestinesi che ha raggiunto livelli di fame; con l'accelerazione della pulizia etnica; con lo spudorato sostegno americano alla politica del criminale di guerra estremista, Ariel Sharon; e con la crescente richiesta dell'allontanamento di tutti i palestinesi dalla Palestina storica. Almeno, e' questo l'obiettivo dei neo-conservatori, dei cristiano-sionisti e dei Likudniks israeliani. E' un progetto a cui tutte le persone perbene - inclusi americani ed israeliani - devono opporsi prima che i guerrafondai americano-israeliani, con le dita sui pulsanti nucleari, spingano il mondo nel precipizio.




Note:



1. Mohandas K. Gandhi, Harijan, 74, 20 novembre 1938: 239-242.

2. Chaim Weizmann, Trial and Error (Greenwood: 1921/1972).

3. Aviv Lavie e Moshe Gorali, "I saw fit to remove her from the world," Ha'aretz, 29 ottobre 2003: http://www.haaretz.com/hasen/spages/ 355227.html

4. Chris McGreal, "Israel learns of a hidden shame in its early years," The Guardian, 4 novembre 2003:
http://www.guardian.co.uk/international/story/0,3604,1077103,00.html

5. Lavie e Gorali, "I saw fit to remove her from the world."



M. Shahid Alam e' professore di economia alla Northeastern University. Il suo ultimo libro, Povertà dal benessere delle nazioni, e' stato pubblicato da Palgrave nel 2000. Può essere contattato a: m.alam@neu.edu.
Visita la sua webpage a: http://msalam.net.




Un cuore non può bastare per due.








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janet
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Posted - 25 January 2004 :  19:40:13  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando



La famiglia non ci ha mai vissuto
di George Bisharat


Villa Harun ar-Rashid fu divisa in diversi appartamenti. Durante gli anni '60, Golda Meir occupò l'appartamento al piano superiore. Si dice che lei, prima che il segretario generale dell'ONU Dag Hammerskjold le facesse visita, ordinò l'insabbiamento delle tegole di fronte alla casa per nascondere il nome inciso su di esse e, con le tegole, il fatto che vivesse in una casa palestinese.


Lo scorso 14 maggio, 55esimo anniversario della "nakba" (catastrofe) palestinese - in cui il mio popolo perse la sua terra, che fu data ad un altro popolo - pensavo ad una casa di Gerusalemme.
Era la residenza occupata da Golda Meir, autrice del famoso detto secondo cui "il popolo palestinese non esiste", quando era primo ministro d'Israele. Era la casa di famiglia costruita nel 1926 da mio nonno, Hanna Ibrahim Bisharat, il "papà" di tutti noi.

Visitai per la prima volta la nostra casa nel 1977. Sebbene cristiano, il nonno chiamò la casa "Villa Harun ar-Rashid", in onore del califfo musulmano abbaside, rinomato per la sua eloquenza, la passione per la conoscenza e la generosità. Le tegole dipinte con questo nome erano inserite sopra al balcone del secondo piano e su un lato dell'entrata.

Quando il nonno costruì la sua casa nel quartiere di Gerusalemme noto come Talbieh, attorno esistevano poche altre residenze. Crescendo, mi vennero raccontate storie della sua fanciullezza, quando giocava negli orti e nei giardini tutt'attorno. Due mie zii nacquero quando la famiglia viveva ancora lì; uno morì di polmonite proprio a villa Harun ar-Rashid. I ragazzi ricevettero la prima istruzione al Terra Sancta College, gestito dai cattolici.
Il muro che circondava il giardino d'ingresso fu un'opera giovanile del gemello di mio padre, Victor, che divenne un architetto di successo negli Stati Uniti.
In seguito, i miei nonni sperimentarono un rovescio di fortuna, e nei primi anni '30 affittarono la villa agli ufficiali della Royal Air Force britannica, apettando il ritorno di tempi migliori. Gli affreschi sulle mura interne furono intonacati per venire incontro ai gusti dei militari britannici. La famiglia si spostò poco lontano, in una casa più modesta in Betlehem Road. Nessuno poteva immaginare, all'epoca, che lo spostamento sarebbe significato la perdita definita di villa Harun ar-Rashid.


Un pesante presentimento afferrò molti palestinesi negli anni che portarono alla guerra nella regione. A causa dei disordini sempre più gravi, mio padre ed i miei zii furono inviati negli Stati Uniti per completare l'educazione, mentre il nonno si spostò al Cairo per i suoi affari. Il 14 maggio 1948, quando Israele annunciò la sua creazione e ebbe inizio la guerra con gli stati circostanti, tutta la famiglia era fuori dalla Palestina. Fummo più fortunati di molti altri: più fortunata dei circa 800.000 palestinesi cacciati dalle loro case, o in fuga a causa dei massacri e del terrore.

Villa Harun ar-Rashid fu presa da gruppi armati di sionisti perché il suo tetto offriva una vista dominante. La sua presa non causò spargimenti di sangue, poiché gli ufficiali britannici passarono semplicemente le chiavi di casa all'Hagana (la milizia ebraica pre-Israele). Come la maggior parte delle famiglie palestinesi, fummo privati del titolo di possesso della nostra casa in seguito ad una legge emanata dal nuovo stato di Israele, chiamata "Legge sulla Proprietà degli Assenti".

Villa Harun ar-Rashid fu divisa in diversi appartamenti. Durante gli anni '60, Golda Meir occupò l'appartamento al piano superiore. Si dice che lei, prima che il segretario generale dell'ONU Dag Hammerskjold le facesse visita, ordinò l'insabbiamento delle tegole di fronte alla casa per nascondere il nome inciso su di esse e, con le tegole, il fatto che vivesse in una casa palestinese.

SOPRAFFATTO DALLE EMOZIONI

Quando nel 1977 tornai a Gerusalemme, avevo con me solo una fotografia della casa ed una descrizione generale della sua posizione, fattami dalla nonna. Era estate, c'era caldo e polvere, ed io andavo su e giù nel quartiere ispezionandone ogni costruzione, e occasionalmente chiedendo informazioni. Tutti i nomi delle strade erano stati cambiati, ed ora portavano il nome di figure del sionismo o della storia ebraica, e l'ospedale che mia nonna aveva descritto come punto d riferimento apparentemente non esisteva più.
Mentre mi riposavo all'ombra, con la schiena contro un muro, vidi una casa che sembrava quella del nonno. Mentre correvo per attraversare la strada, potei vedere le tegole che portavano un nome sbiadito ma familiare. Credo che l'insabbiamento di Golda Meir avesse perduto lo smalto.
Fui immediatamente sopraffatto dalle emozioni - rabbia, tristezza, tensione e persino timore. Attraversai il giardino verso le scale d'ingresso, appoggiandomi alla balaustra in pietra a cui mio nonno e mio padre si erano appoggiati innumerevoli volte. Suonai il campanello.

Dopo una lunga attesa, una donna anziana aprì la porta. Le spiegai il motivo della mia visita, dicendole che mio nonno era colui che aveva costruito la casa. Le mostrai il mio passaporto americano e le chiesi di vedere brevemente l'interno. Di fatto, le sue prime parole furono: "La famiglia (intendeva dire la mia famiglia) non ha mai vissuto qui". In seguito avrei interpretato quelle parole come il tentativo di razionalizzare il furto della nostra proprietà. E' più facile accettare, in termini morali, l'espropriazione di una costruzione costruita da ricchi proprietari terrieri per motivi speculativi anziché contemplare la presa di possesso di una casa di famiglia.

All'epoca restai senza parole, come sempre di fronte a dichiarazioni del genere. Quando tornai in me, fui tentato di dirle la verità. Ma ebbi paura che mi venisse negato l'ingresso. L'umiliazione di dover implorare l'ingresso nella casa della mia famiglia a questa donna che veniva dall'Europa dell'est brucia ancora dentro di me.
Fummo subito raggiunti da suo marito, Zvi Berenson, giudice ora in pensione della Corte Suprema israeliana, uno di coloro che scrissero la Dichiarazione di "Indipendenza" d'Israele. Mi permise di entrare nell'ingresso, non oltre, dicendo che non era il caso di vedere altro della casa poiché essa era stata comunque restaurata. La coppia insisté che la casa era gravemente danneggiata, e che essi avevano dovuto fare molti lavori per risistemarla, una dichiarazione che non posso mettere in dubbio. Nella sola Gerusalemme ovest, circa 10.000 case palestinesi furono saccheggiate ed occupate nei mesi che precedettero lo scoppio della guerra tra Israele ed i paesi arabi, nel 1948.

Il giudice Berenson mi disse che le mura del soffitto erano coperte di fuliggine - un ricordo, probabilmente, dei fuochi accesi dalle truppe dell'Hagana per cucinarvi i pasti. Eppure, questa continua narrazione del "restauro" era la versione urbana ed in piccolo del mito secondo cui i sionisti erano entrati in una terra deserta e arida, e "la fecero rifiorire". In seguito seppi, tramite una ricerca fatta da un amico e collega israeliano, che il giudice Berenson sostenne una serie di leggi che facilitavano l'acquisizione delle terre palestinesi da parte di Israele attraverso ciò che può essere definito "furto legalizzato".

IMMAGINARE LE VOCI

La casa, dentro, era fredda e, mentre ero lì, cercai di imaginare il suono delle voci di mio padre e dei suoi fratelli, e l'odore della cucina di mia nonna. Me ne andai dopo appena cinque minuti. Sotto il sole cocente, non provavo specifica ostilità verso i due vecchi che abitavano la casa di mio nonno. Ma l'ospitalità, un valore di così immenso significato nella cultura palestinese, e' difficile da provare quando gli ospiti diventano usurpatori.

Nel 2000, insieme alla mia famiglia, rifeci lo stesso pellegrinaggio. Mentre camminavamo per strada, raccontai ai miei due figli la storia dell'occultamento delle tegole da parte di Golda Meir. Ero sopraffatto. Istintivamente, il mio bambino mi abbracciò una gamba, mia figlia mi si strinse alla vita e mia moglie mi strinse la mano e restammo brevemente così, uniti, con le lacrime che ci rigavano il volto. In breve, ci ricomponemmo, attraversammo la strada e camminammo verso i gradini d'ingresso.

La porta si aprì, ed un uomo sorridente disse: "Posso aiutarvi?". Sorpreso, lo ringraziai per la gentilezza e lui spiegò: "Molti turisti vengono a vedere questa casa. Essa e' inclusa nei giri turistici della città". L'uomo, un americano di New York, ci permise di entrare e di avventurarci oltre il primo piano. Ma quando gli dissi che la famiglia di mio padre viveva lì, restò incredulo. Stavolta non mi sorpresi quando lui, seppur piacevolmente, protestò: "Ma la famiglia non ci ha mai vissuto". Aveva racimolato l'informazione da un giornale, spiegò. Insisté, ripetendolo almeno una dozzina di volte: "La famiglia non ci ha mai vissuto".

Invece la famiglia ci aveva vissuto, nonostante i dinieghi, le giustificazioni e l'offuscamento da noi sperimentati. Altre centinaia di migliaia di palestinesi "ci avevano vissuto". Le chiavi delle loro case adornano ancora i muri delle case, delle stanze e dei ricoveri per profughi sparsi per il mondo.

Non siamo spariti, non abbiamo dimenticato - la nostra sola esistenza e' la memoria vivente che la fortuna di un popolo si e' basata sul dispossesso di un altro. A casa, in California, ho uno spesso file contenente le documentazioni degli sforzi fatti dalla mia famiglia per rientrare in possesso di Villa Harun ar-Rashid. Non abbiamo ottenuto risultati, ovviamente, né e' stata riconosciuta l'ingiustizia vissuta da noi e da innumerevoli altri. Le nostre case e le nostre proprietà sono state trasferite, molto tempo fa, allo stato ed alle agenzie semi-governative che, persino oggi, non affittano e non vendono terre ai non-ebrei.

Recentemente, ho trovato mia figlia che indugiava sulle foto di mio padre, ragazzo a Gerusalemme. Adesso lei e mio figlio sono gli eredi della verità su Villa Harun ar-Rashid.



Il professor George Bisharat insegna all'Hastings College of Law dell'Università della California, San Francisco. L'articolo e' apparso sul San Francisco Chronicle il 18 maggio 2003








Un cuore non può bastare per due.










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