Federico Fellini nasce a Rimini, 1920. Di famiglia borghese, sin da giovane abile nel disegno, Fellini è a Roma già nel 1938, collaboratore di vari giornali satirici tra i quali il celebre "Marco Aurelio". Dal 1941, comincia un'intensa attività di soggettista e sceneggiatore: la sua firma appare nei titoli di pellicole di assoluto rilievo, da "Roma città aperta" (1945) a "Paisà" (1946), da "Senza pietà" (1948) ad "Europa '51" (1951). Debutta nella regia dirigendo assieme ad Alberto Lattuada "Luci del varietà" (1951), immalinconita ricognizione nell'universo dell'avanspettacolo. Nel successivo "Lo sceicco bianco" (1952), scritto con Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, egli si allontana dalla tradizione neorealista, delineando personaggi sospesi tra il fantastico e l'ironico. L'anno dopo, "I vitelloni" gli frutta un Leone d'Oro a Venezia oltre che grande successo di pubblico e di critica: è un film di matrice autobiografica, ov'egli torna alla provincia delle proprie origini con un sentimento misto di nostalgia e repulsione. Gli anni seguenti sono costellati di successi: la limpida poesia de "La strada" (1954) gli fa vincere un meritato Oscar, ed un altro glielo procura l'intenso "Le notti di Cabiria" (1957): entrambi i capi d'opera si valgono delle magnifiche interpretazioni di sua moglie, Giulietta Masina. Se "Il bidone" (1955) è poco più che una parentesi, ha caratura epocale "La dolce vita" (1959), che fotografa gli anni del boom e del dominio democristiano con impietosa esattezza: entra in scena Marcello Mastroianni, che diverrà l'attore preferito del cineasta-demiurgo. Preceduto dal graffiante segmento "Le tentazioni del dottor Antonio" (1961), il meraviglioso "8 e 1/2" (1963) gli garantisce un terzo Oscar ed è considerato da molti il suo esito più elevato. Meno riusciti risulteranno la ricognizione junghiana nell'animo femminile di "Giulietta degli spiriti" (1965) e l'accidentato itinerario nell'antichità del "Satyricon" (1969): assai migliore il tagliente ed incubico episodio "Toby Dammit" (1967), eccellenti le parti incentrate sul passato del diseguale "Roma" (1972). Il ritorno al borgo natio di "Amarcord" (1973) ha pel Nostro effetti palingenetici, ché qui si è di nuovo ai suoi livelli più altì e non ci si può che inchinare al magistero de "Il Casanova" (1976), lavoro notturno ed ipocondriaco di straordinaria resa. L'apologo minaccioso di "Prova d'orchestra" (1979), il viaggio innecessario nell'inconscio de "La città delle donne" (1980), la pretenziosa allusività di "E la nave va" (1983) dicono di una palese crisi d'ispirazione: dalla quale egli cerca rifugio nella pacata invettiva anticonsumistica di "Ginger e Fred" (1986), nel block-notes divertito e melanconico di "Intervista" (1987). Per approdare, nel testamentario "La voce della luna" (1990), ad una riflessione lucidissima sull'orribilità del presente visto tramite lo sguardo di due emarginati: un favolello impeccabile, chiuso da un sommesso invito al silenzio. Per capire di più. Muore a Roma nel 1993.
Salvatore Adamo è nato il 1 ° novembre 1943 a Comiso, Sicilia (Italia), ma crescono in Belgio, dove il padre trasferì nel 1947 a lavorare nelle miniere. Cantante a cuore, è stato notato nel 1960 vincendo un concorso organizzato da Radio Lussemburgo. Adamo è per l'inizio di una lunga carriera che il marchio francese varietà degli anni sessanta e settanta. Va come tubi "si lascia signor", "ho dimenticato che le rose sono rose," It's My Life ". Salvatore Adamo cantare Francia, ma non esitate a registrare alcuni dei suoi titoli tedesco, spagnolo, italiano, portoghese, ecc.
É morta di droga pochi mesi prima di Jim Morrison e pochi mesi dopo Jim Hendrix: come loro ha cantato l’alcool, il sesso, la solitudine; come loro è stata una star creata dal pubblico a dispetto del sistema e non viceversa.
C’è sicuramente da dire molto sulla breve vita torturata che appartenne a questa ragazza che credeva forse di non aver ricevuto nulla dalla vita, mentre invece possedeva la forza e la grandezza del mito: un mito autentico, vero, forse troppo umano ma che proprio dalle sue debolezze ha tratto il suo indiscusso fascino. Sono bastati quattro anni per farla entrare nella storia della musica rock-blues.
Janis Lyin Joplin nacque il 19 gennaio 1943 al St. Mary’s Hospital di Port Arthur, bigotta ma importante cittadina petrolifera nel Texas. Suo padre Seth, originario di Amarillo, lavorava presso la locale “Texano Canning company”, mentre sua madre Dorothy proveniva dal Nebraska.
La giovane passò un’infanzia normale, poi, sebbene la famiglia appartenesse alla borghesia, da adolescente mostrò subito i segni di un anticonformismo che l’avrebbe poi contraddistinta da grande. Sovrappeso e con il viso rovinato dall’acne, cominciò a distaccarsi da tutto e da tutti. Rifiutata e presa in giro dagli altri, Janis cercava e trovava conforto nei lavori degli emarginati come scrittori, musicisti e artisti in genere; del resto quando la società respinge una persona ci si comporta di conseguenza, rifiutandola. Lei si sentiva un brutto anatroccolo e si rifugiò nella musica country e soprattutto nel blues, l’unica musica che, nella sua viscerale e universale tristezza, potesse esprimere il suo drammatico bisogno di aiuto non corrisposto. Paradossalmente Port Arthur rese Janis Joplin ciò che era: un’atmosfera più tollerante avrebbe potuto diluire il fuoco che le bruciava dentro, e il fuoco è ciò che ognuno ha riconosciuto in lei.
Dopo essersi diplomata nel maggio del 1960 al “Thomas Jefferson High”, fuggì di casa e si iscrisse all’università delle belle arti a Austin sempre nel Texas. Per mantenersi negli studi ed avere di che vivere, alternava il lavoro di cameriera a quello di cantante in qualche club. Si faceva accompagnare da un gruppo di bluegrass, i “Waller Creek Boys”; il suo repertorio era Leadbelly, Bessie Smith.
Ma intanto cominciò a fare uso di amfetamine e per curarsi da una intossicazione di metredina dovette tornarsene a casa. Poi nel 1963 se ne andò a San Francisco in autostop con un suo amico, Chet Helmes, che aveva conosciuto a Austin. In California conobbe qualche personaggio che di lì a poco sarebbe divenuto famoso, come David Crosby e Jorma Kaukonem (futuro chitarrista del gruppo dei Jefferson Airplane) dal quale si fece accompagnare per qualche esibizione.
Nel Texas ci ritornò nell’estate del 1965 dopo essere stata a New York; aveva cominciato a bere pesantemente e fu una vera fortuna l’ingaggio al “The Eleventh Door” di Austin che le permise di rimanersene tranquilla fino al maggio del 1966.
Nel frattempo il suo amico Chet Helms, rimasto in California, era diventato il manager di una nuova band formatasi nel 1965, “The Big Brother & the Holding company”, e vedendo il successo ottenuto da altri gruppi con cantanti donne, come i Jefferson Airplane con Grace Slick, convinse la nostra texana a tornare a San Francisco per unirsi al gruppo. Iniziò così nel giugno del 1966 l’avventura di Janis Joplin con i Big Brother. Fu subito chiaro che la scelta si rivelò esatta perché l’abilità che lei aveva nel trasmettere la sua energia al pubblico divenne chiara e determinante per il successo. Janis non solo cantava ma dava delle sofferte interpretazioni alle canzoni con la sua voce roca e abrasiva. Nel 1967 uscì il primo album, a dire la verità mediocre, ma fu il famoso Festival di Montery tenutosi in giugno che imposero all’America e al mondo intero la sua personalità; la sua esibizione fu incredibile, sicuramente la più gradita dal pubblico insieme a quella di Jimi Hendrix.
Dopo Monterey per Janis il successo divenne più facile ma insieme alla celebrità aumentò l’insicurezza e il senso di solitudine che non l’aveva mai abbandonata. “Sul palco faccio l’amore con 25.000 persone ma poi torno a casa da sola”. Così si abbandonò completamente all’alcool, alla droga e ad una vita sessuale disordinata. Uscì un secondo album “Cheap thrills” che ebbe un immediato successo e questa volta i critici le tributarono i giusti meriti; ma lei fuggì ancora una volta abbandonando i Big Brothers, dai quali pretendeva forse una maggiore versatilità per l’improvvisazione e la sperimentazione. Erano le sue esibizioni live a far discutere con la loro carica emozionale enorme e struggente. La Joplin era diventata una superstar e più la gente la cercava, più lei si ritirava in se stessa. Nel 1969 si ripresentò con un nuovo gruppo, la “Kozmic Blues band” e durante un concerto tenutosi a Tampa in Florida, la nostra protagonista venne multata per aver usato un linguaggio blasfemo e il fatto ebbe una risonanza indubbiamente negativa soprattutto per ciò che poteva riguardare gli ingaggi. Ma lei aveva bisogno in ogni caso di riposo e fu convinta a interrompere i concerti per un po’.
Nel febbraio 1970 se ne andò in vacanza in Brasile e a Rio incontrò certo David Niehaus di cui si innamorò e con il quale trascorse momenti di grande felicità. Riprese i concerti a luglio aggregandosi ad una carovana di musicisti illustri che con il nome di “Festival Express” si muoveva con il treno. A settembre cominciarono le registrazioni dell’album “Pearl” (simpatico nomignolo con il quale veniva chiamata Janis).
Destò sorpresa l’annuncio che fu dato il 4 ottobre 1970 del rinvenimento del suo cadavere nella stanza di un albergo. A causare la morte fu un’overdose di eroina ma l’ipotesi del suicidio forse è da escludere proprio perché era quello uno dei momenti più felici e sereni dell’artista. L’album “Pearl”, uscito postumo un anno dopo raggiunse in pochi giorni il primo posto delle classifiche e vi rimase per qualche mese.
Di fronte alla morte, alla tragedia di una vita trascorsa in maniera per i più sbagliata ma sicuramente intensa, ciò che resta di lei sono gli albums, le canzoni, la sua voce. Quella roca, abbruttita dall’alcool, ma stupenda voce, che per lei rappresentava l’unico modo per elevarsi dalle catene di una vita crudele, per rivelare la sua anima.