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 Un angolo di cielo 2 poesie nel mondo
 PALESTINA.
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janet
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Posted - 13 August 2003 :  22:01:38  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando
Fadwa Toqan

Poetessa palestinese della resistenza





E' la piu' celebre poetessa palestinese. Nata a Nablus, in Palestina, nel 1917, sorella del celebre poeta Ibrahim Toqan, scomparso a Gerusalemme nel 1941, nel 1936 pubblico' le sue prime poesie su riviste e quotidiani del suo paese e dell' Egitto. Fino al 1967, la poesia di Fadwa, dallo stile ricco e soave, esprime per lo piu' desideri e sentimenti femminili. Dopo la guerra del 1967, che violenta e umilia la terra di Palestina, Fadwa si fa, con una poesia della resistenza forte e incisiva dall'ispirazione vigorosa, interprete del dramma della sua patria e del suo popolo.



LA MIA TRISTE CITTA' (scritta il giorno dell'occupazione israeliana di Nablus)



Il giorno in cui vedemmo la morte e il tradimento

L'alta marea si ritiro',

le finestre del cielo si chiusero

e la mia citta' perse il respiro.

Il giorno in cui si ritirarono le onde

E le bruttezze dei precipizi volsero il volto verso il sole

S'infiammarono gli occhi della speranza,

e la mia triste citta'

soffoco' dal tormento.

Sparirono bimbi e canzoni:

non piu' ombre ne' echi,

e la tristezza andava nuda in mezzo alla mia patria

a passi sanguinosi;

il silenzio nella mia citta'

s'accovaccio' come alte montagne,

come la notte, il silenzio tragico,

appesantito dalla morte e dalla sconfitta.

O mia triste e silenziosa citta'!

Cosi', nella stagione della mietitura

S'incendiano messi e frutti?

Ahime'! che brutta fine del cammino!





ETERNAMENTE VIVO

Adorabile patria nostra!

Quantunque sul tuo cuore girera' nel buio

Il mulino del tormento e del dolore,

I nemici non riusciranno mai, amata patria,

a cavarti gli occhi:

non riusciranno mai!

Continuino, dunque, a soffocarci i sogni

Ed il sentimento del dolore,

a crocifiggerci la liberta' di costruire e lavorare,

a rubarci le risa dei bambini,

a distruggere e a bruciare.

Cio' malgrado, dalla nostra miseria

E dal nostro gran dolore,

dal nostro sangue che macchia le pareti

e dal nostro palpitare tra vita e morte,

nascera' in

noi un'altra vita,

o profonda piaga nostra,

nostro unico amore!





HAMZA

Come tutti gli altri buoni e semplici uomini

Di questo mio paese,

Hamza si guadagnava il pane

Con le proprie mani e col sudore.

Un giorno che c'incontrammo,

per sollevarmi dalla vergogna della sconfitta,

Hamza mi disse:

"Stai ferma e non cadere, cugina;

questa terra bruciata dal fuoco del delitto

e che si raccoglie angosciata e silenziosa,

rimarra' col cuore eternamente palpitante.

E' come una donna…

Il mistero della vita e' uguale

Sia nella matrice di una donna

Che nel solco del suolo.

Lo stesso mistero che fa crescere palme e spighe

Fa nascere uomini combattenti".

I giorni passarono ed io non vidi piu' Hamza,

ma ero sicura che il ventre della terra

si preparava per un parto

e per una nuova rinascita…

I sessantacinque anni suoi

Gli erano pesanti sulle spalle come una roccia.

"Fate saltare la casa

e portate, incatenato, il figlio

nella cella della tortura!"

Compiuto l'ordine selvaggio, il governatore si ritiro'

Girandosi in bocca, senza vergogna,

menzognere parole d'amore,

di sicurezza e di pace!…

I militari nemici

Circondarono rapidamente la casa

E odiose voci gridarono avvertendo oltre la porta:

"Lasciate presto la casa!

Fra un'ora…forse meno!…"

Hamza, invece,con la fede e serenita' di cuore,

apri' le finestre contro il sole

e grido':

"Allah Akbar! Dio e' il piu' grande!

E tu, Palestina nostra,

io, la casa, I figli,

ci sacrifichiamo tutti per la tua liberazione:

per te viviamo, per te moriremo !"

L'eco ripete' il grido fiducioso di Hamza,

e nella citta' esplose un odio infinito,

mentre la casa attendeva con devozione la fine…

Un'ora dopo la casa martire esplose

E una collina di macerie ne prese il posto

Nascondendo dentro se' sogni e tranquillita',

e facendo sparire per sempre

sudore, fatica e I ricordi di tanti anni di lotta,

di fermezza, di lacrime e sorrisi felici.

Ieri, per strada, ho veduto passare mio cugino:

camminava a passi vigorosi e certi.

Hamza sta ancora, come sempre,

con la fronte alta!





SOSPIRI DAVANTI ALLO SPORTELLO

Fermarmi sul ponte a mendicare un permesso!

Ahime'! Mendicare un permesso di traversata!

Soffocarmi, perdere il respiro

Nella calura del meriggio

Sette ore d'attesa…

Ahi! Chi ha rotto le ali al tempo?

Chi ha paralizzato le gambe al giorno?

Il caldo mi flagella la fronte

E il sudore mi colma di sale gli occhi.

Ahime'! Migliaia d'occhi

Son fissi con ansia calorosa

Allo sportello dei permessi;

son specchi d'angoscia

titolo di ansia e di pazienza.

Ahime'! Mendicare un permesso!

E la voce di un soldato straniero

Scoppia furiosa come uno schiaffo

Sul volto della folla:

"Arabi…disordine…cani!

Tornate indietro!

Non avvicinatevi al cancello!

Indietro…cani!…"

Una mano sbatte con rabbia lo sportello dei permessi

Di fronte alla folla che preme,

chiudendo ogni possibilita'.

Umiliata la mia umanita'

Pieno d'amarezza il mio cuore

E il mio sangue e' fatto di veleno e fuoco!

"Arabi…disordine…cani!"

O santa vendetta del mio popolo offeso!

Ormai ha solo da attendere,

ma il momento giungera'…

il momento della giustizia e della vendetta.

Dio! Chi ha rotto le ali al tempo?

E chi ha paralizzato le gambe al giorno?

L'arsura mi flagella la fronte

E il sudore mi colma di sale gli occhi.

Profonda la mia piaga,

e il flagellatore umilia senza pieta'.

Percio' il mio cuore e' diventato

Una sorgente di fuoco, di ira,

di vendetta,

poiche' in me hanno ucciso l'amore!





COME NASCE UNA CANZONE

Le canzoni nostre le prendiamo

Dal tuo tormentato e sciolto cuore,

e sotto il peso del buio e della notte

le impastiamo con luce, con incenso

con amore e con voti;

le carichiamo del vigore delle rocce e del salice,

dopo di che le restituiremo al tuo cuore,

puro e trasparente quale cristallo,

o nostro lontano e paziente popolo!





FELICE NEL SUO GREMBO

Saro' soddisfatta di morire

Nel mio paese,

di essere sepolta e sciolta

sotto la mia terra.

Un giorno risorgero' sotto forma di un'erba

O di un fiore che verra' gentilmente carezzato

Dalle manine di un bimbo della mia patria.

Saro' felice e soddisfatta di rimanere,

non importa se erba o fiore,

nel grembo benigno del mio paese!










janet


Un cuore non può bastare per due.
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janet
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Posted - 13 August 2003 :  22:02:46  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando
Mueen Bsyso


Mueen Bsyso è uno dei più conosciuti poeti palestinesi dell'esilio. E' nato nella città di Gaza dove ha vissuto fino al 1948, quando si iscrisse alla facolta'di lettere dell'Università Americana del Cairo. Nel 1953 ando' in Iraq per insegnare la lingua inglese in una scuola media superiore, dove rimase solo pochi mesi.
Tornato alla città di Gaza, fu testimone il 28 febbraio 1955 di un attacco aereo israeliano contro la ferrovia della citta'.
Questo episodio ha contribuito a determinare la sua scelta di impegno nella resistenza, come precisa nella sua autobiografia.
Arrestato diverse volte dall'autorità israeliana per la sua ribellione all'occupazione, ha scritto una delle più belle poesie su un camion, mentre lo portavano al luogo di detenzione.

Quando usci' dal carcere, ando a vivere a Rafah, nella striscia di Gaza,in casa di uno zio.
Fu arrestato di nuovo il 27 aprile 1959 (la zia mori' di infarto assistendo al suo arresto) e fu liberato nel marzo del 1963.
Nel 1967 con l'occupazione israeliana della striscia di Gaza il poeta si trasferi' prima al Cairo e poi a Beirut, dove lavorò con l'OLP nel campo culturale. Lascio' Beirut dopo l'uscita dei fedayin (combattenti palestinesi) come conseguenza della guerra del 1982, quando Israele invase il sud del Libano.
Mueen Bsyso e' stato considerato il simbolo dei poeti della resistenza in esilio, perché non ha mai vissuto in un territorio occupato da Israele. Infatti è rimase in esilio fino alla sua morte, lontano dal suo paese.
L'allontanamento dalla propria terra, non cancello' il ricordo dei bei momenti trascorsi in patria, come ricorda nelle sue poesie, che spesso assumono una impronta funebre ma si concludono con un spiraglio di speranza.



IL LUPO
Perché suona l`arancio …
come un orologio da muro
e la lettera … cade nelle mani dell`avversario.

Mi hai tentato con la poesia
ed ho seguito la gazzella …
ma la stella era un lupo ed il cielo e` un suo occhio.
Scrivi la mia confessione: non sono affaticato
non sono affaticato
pero` ho visto …
ed ero fra i primi di coloro,
che hanno annunciato il sorgere della stella
quando era una goccia di sangue …

Scrivi la mia confessione: non sono affaticato
pero` ho visto
perci? quando il fiume diventa il collo di un impiccato
e quando il pozzo diventa un lupo,
come pu? dissetarsi la gazzella ?

L`arancio ruota compiendo mille giri
ma dopo due volte cade la lettera
nelle mani del nemico…

*****

O patria … il candeliere non e` un gallo..
e certo l`occhio del poeta perseguitato non e` un anello..

Tutte le volte che mi allontano, mi innamoro
tutte le volte che mi avvicino, mi viene una vertigine

E ogni volta che ho liberato
ogni volta che ho liberato
ogni volta che ho liberato
una farfalla dal candeliere della donna che ho amato
si appropria di me un martire
con i fiori, le pallottole e il canto …..




Suonando solitario
la cetra


La testa di tuo padre
è ancora appesa alle mura
divorata dagli avvoltoi.

La testa di tuo padre
è come una mela caduta
sotto gli zoccoli dei cavalli.

E tu sei ai piedi dei beoni
dedicandoti ancora al bere.
dicendo : oggi è vino
ma il domani è nostro.
sappia che il domani
è ancora vino
è ancora vino.


* * * * *

S'Egli dovesse scendere
dalla sua croce
se si svegliasse
dall'agonia della morte
rinnegherebbe la voce e l'eco
rinnegherebbe i suoi discepoli
rinnegherebbe i suoi servi.
E magari alzerebbe
una forca
o si consumerebbe nella rabbia.

* * * * *

O Dio mio …. i poeti
uno è morto difendendo
la spada dello stato.

Il secondo è morto difendendo
il tamburo dello stato.

Il terzo è vissuto difendendo
gli stivali dello stato.

Chi vorrebbe essere il quarto ?

* * * * *

Il paese che fu patria
oggi è diventato una controversia.
non rimproverate il fucile
quando è morto
senza lasciare un testamento.

* * * * *
Ho scritto su una nuvola
"abbasso la censura"
ed essi sequestrarono il cielo.



continua






janet


Un cuore non può bastare per due.
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janet
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Posted - 13 August 2003 :  22:03:52  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando




Poesia scritta su carta di sigarette

scritta in carcere nel 1961.

Inginocchiati per un foglio di carta, inginocchiati.

Intingi la penna negli occhi di tuo figlio e scrivi quello che ti ordina:

I connotati di colui che ti massacro'

Sulla soglia di casa con la penna.

Ammucchia i tuoi giorni davanti a te come carta,

non essere timido… chiedi un fiammifero al tuo oppressore…

fabbrica col torbido miscuglio di cenere e fumo

qualche foglio per il tuo libro.

Vorrei che i morti sapessero come stai fabbricando una corda di parole

Per appendervi il verso.

Mordi il cuore dell'amata come un lupo… e presentalo

Su un vassoio di carta gialla,

tagliale le trecce per bendare la ferita d'una iena nera,

mordile gli occhi come uno scorpione… non esitare.

Vieni come una rana e suona

La tua campana per la palude stagnante

Firma in fondo a questo foglio, entra nella tua casa come un ladro,

stai attento, strada facendo, non cada la tua ombra su una fabbrica.

Mastica la tua ombra, ingoiala come s'ingoia uno straccio avvelenato.

Affrettati e bussa alla tua porta

Fino a che la tua mano vada a pezzi,

colei che ti amava non ti udra'.

Il suo braccio che fremeva in mano tua

Come una bandiera sventolante o una spada di diamante,

ora il tuo anello e' simile a un anello di cenere, fumo e cardo…

Guarda se puoi immaginarti Farid* crocifisso sul mio cuore,

una lama di luce , un rosso caravan** cantare sommesso

gola per ogni muro, non cessera' mai il canto,

non finiranno mai le faville del mio canto.

La matita ubriaca di veleno barcolla:

inutilmente la sorreggerebbe il carceriere, o I tuoi versi.

I ricordi irrompono come onde di cardi sulle tue palpebre,

ti tengono sveglio fino al silenzio.

Tu continui a pestare a piedi nudi il pavimento della cella,

la notte sul tuo petto come una porta chiusa,

il carceriere giunse come un martello o un fossato.

Dove vorresti andare? A casa tua?

La tua casa e' un pugnale alle spalle.

Da tuo figlio? Tuo figlio e' su una croce di carta,

gelato nel suo pigiamino.

Tu sarai trascinato nella strada,

cammina e inciampa,

cammina e inciampa

davanti al tuo oppressore.

Dove vorresti andare, quando il vento ti sparpaglia sulla carta.

Inginocchiati per la carta, inginocchiati.

*Prigioniero politico morto di torture

** Uccello canoro



La Gazzella del Sannine - 1976

Per il martire Abu Khaled, morto in combattimento sui monti del Libano

L'acqua è caduta in battaglia, ma la rugiada ancora combatte.

Il suono è scomparso nell'azione, ma l'eco ancora risuona,

e tu sei tra l'acqua e la rugiada, tra il suono e l'eco,

farfalla che scivola verso l'ignoto…

Egli va alla trincea e torna manifesto sopra un muro.

Va inghirlandato di fiori e di conchiglie

E se la sua fotografia lo aspetta alla finestra,

le presse tipografiche aspettano la sua fotografia.

La carta è pronta, i colori mescolati,

la foto e' gia' in lavorazione.

Una gazzella da Sannine e' trasportata a spalle,

Per essere sepolta sopra un muro, un manifesto.

Egli va alla trincea, la mano e il petto decorati.

Il nome: Abu Khaled, ma ando' d'un solo colore,

con una sola voce nella bocca.

Perche' lo hanno fatto di tanti colori?

Abu Khaled, nel momento in cui cadesti, questa sera,

un albero d'apinos e' stato ucciso in Sudan,

il lupo si stava innalzando sul suo mantello volante,

da Teheran, turbante in mano,

e venne a Naba'a* a mungere la gamba di una prostituta.

Ma a Tal Az-Za'tar* un feto in un utero

Premette con le mani contro il ventre

E usci' fuori su una goccia d'acqua.

Ora la mano di uno del sud

Avvolge una foglia di tabacco aspettando i fiammiferi.

Chi ha il sangue alla bocca puo' piangere,

chi ha il sangue nel sangue puo' piangere.

I martiri sono diventati i poeti.

Verso l'acqua procede, la gazzella dell'acqua.

Egli va… abbandona la mano sull'acqua, come una bottiglia



E torna al muro, un manifesto.

Guarda, hanno scavato un letto nel terreno

Il falegname conficca le nostre dita nella cassa, come chiodi

L'altoparlante è a posto sul carro funebre,

la gazzella e' uscita sulle assi.

Urla la sirena d'un'autoambulanza

Il remo teso portato a spalle, il corteo s'e' avviato.

Era un solo colore ed una voce:

perche' l'hanno stampato a colori?

Alla trincea… la casa dei martiri, va un sapore di piu'.

I nuovi martiri alla tavola dei precedenti,

un manifesto in cima ad un altro

nuovi su vecchi manifesti.

Se tu avessi bruciato la tua foto

Saresti invecchiato sul muro.

Le macchine tipografiche sono in funzione,

un'altra gazzella e' in cammino

a pieni colori verso il muro, un manifesto.

L' acqua e' caduta in battaglia

Ma la rugiada ancora combatte.

Il suono e' morto in battaglia

Ma l'eco ancora risuona.

E tu sei tra l'acqua e la rugiada, tra il suono e l'eco,

una gazzella che scivola verso l'ignoto…

*Nomi di campi profughi palestinesi



A Una Turista Americana

Dopo la guerra dei sei giorni - 1967

Io vi chiedo perdono, signora

Ma voi siete arrivata proprio il giorno

In cui tagliano le braccia al poeta.

Che cosa resta da vendere?

Un'anziana signora prima di voi ha comprato

la tomba di Saladino e Hittin*,

I giardini pensili di Babilonia furono messi all'asta

Nei mercati del mondo

Fiore dopo fiore e bocciolo dopo bocciolo.

Abbiamo liquidato l'anello e il dito.

Non e' rimasto niente, solo le Piramidi,

ma le loro pietre sono troppo pesanti,

e la Sfinge e' ferita da una pugnalata

morira' se la portano via da questa terra

non appena il pugnale sara' tratto dalla sua fronte.

Perdonate, signora, la nostra ultima cava

L'abbiamo gettata nel fiume,

e l'ultimo gallo che cantava e' stato ammazzato.

Non rimane che Dio, il quale fugge da ogni parte

Come una gazzella inseguita dai cani della muta.

La contraffazione ora gli da' la caccia

Su una buona cavalla.

Lo spingeremo in ogni angolo

E lo cattureremo per darvelo.

Non temete:

chi ha venduto il poeta vi venderà anche Dio.

*Localita' della Palestina in cui Saladino sconfisse i crociati



Stanza 405 - 1967

Ritorneranno, perche' sono sempre con noi.

Anche tu, come me, sei sulla lista di morte.

Che aspetti? Ho lasciato loro la porta aperta.

Il mio corpo e' il terreno e questo e' tempo

d'arare e seminare.

Che aspetti? Le previsioni del tempo?

Ho lasciato loro la porta aperta

Io sono un semenzaio di fiumi

Stanotte ci sara' la piena con le violente piogge d'aprile

Che aspetti? I nuovi bollettini? I giornali a mezzanotte?

Aspetti la prima pagina e i tipografi?

O la prima pagina dei manifesti e dei giornali murali?

Un falegname sta battendo un chiodo per unire due tavole

Le seghe ronzano intorno al collo degli alberi.

I prezzi del legname sono alti, stanotte.

Portano a spalle i cedri, le stanze per l'autopsia

Aspettano i pesci da Shat al Arab,

ed io ho lasciato la porta aperta.

Come mi piace il ghiaccio nei bicchieri

E quanto odio il ghiaccio sui cadaveri!

Un falegname sta battendo un chiodo per unire due mani.

Tu, che quel giorno mi desti un paio di scarpe e una pistola,

non puo' un proiettile unirci?

Non puo' una nuvola avvolgerci nello stesso sudario?

Ascoltali… stanno salendo le scale!

Mi e' rimasto un minuto, io ti daro' questo minuto

Perche' quel giorno mi desti un minuto.

Che aspetti? Il mio corpo e' un vivaio di fiumi

Migliaia di fiumi zampillano dalle finestre del mio corpo

Il terrore ha formato un lago.

Stanno incollando migliaia di manifesti sui muri delle vie,

migliaia d'alberi stanno abbattendo

ed io ho incollato il mio volto sul cielo.

Ah… carne dei palestinesi, cibo per i giornali.

Stanno arrivando, ho lasciato loro la porta aperta.

Io sono il baco e la seta, il mio corpo s'annida nella cruna d'un ago

Migliaia d'aghi e di fili, stanno cucendo camicie per alberi.

Che aspetti? Migliaia di giornali stanno sparando alla mia testa,

io sono la prima notizia, un cadavere nel giornale,

e sono l'ultima notizia quando scrivo

un poema contro il ghiaccio e la morte.

Sono arrivati, ho lasciato la porta aperta per loro, e per te.

Io sono un ladro, patria mia,

sono uno che ama e spara con tutti I tuoi fucili.

Fossi stata con me, ora, avremmo combattuto insieme.

Li avremmo fatti saltare con una candela.

Quando ho scelto gli alberghi, ho scelto anche le trincee.

Mi hanno ucciso.

Fossi stata con me, avremmo combattuto insieme,

li avremmo fatti saltare con una candela.



Carta d'Identita' - 1968

Ho ballato su tutti i soffitti, su tutte le finestre,

e tutti I tetti delle celle delle prigioni.

Ho mangiato tuono nero con forchetta e coltello

Nei piatti di tutti i carcerieri.

O mia terra, io sono il tuo poeta e cantore decapitato.

Mi sono arrampicato senza braccia

Su tutte le montagne del mondo,

il mio petto e' stato impresso a fuoco

con il marchio di tutte le prigioni.

Ho bussato ad ogni porta, una puttana mi nascose

Ma fui tradito da un sant'uomo e tuttavia Dio era con me.

Testimonio' alla polizia in mio favore:

-La scheda e' pronta

-Il vostro nome

-Eta'

-Indirizzo

-Professione

La sua professione era Dio,

gli presero le impronte digitali e lo fotografarono.

Egli era con me, ma dietro a me Egli era anche il delatore.

Mi nascosero un microfono nel cuore

E I congegni d'ascolto nel cuore di Dio.

Mia terra, patria mia, da quando ti vidi barcollare ubriaca

In tutti i locali pubblici e clandestini,

m'indebitai e divenni lo schiavo di tutti gli usurai.

Ipotecai le ferite del mio viso e le ferite del mio canto,

per darti libertà… io, il decapitato.

La lampada di Aladino e' rimasta senz'olio,

I nostri ulivi non danno frutti da anni.

Sansone mi dette i suoi capelli,

ma Dalila venne a cercarmi

sopra e sotto il mio letto era lei.

La mia cena quella notte era fatta con schiuma di miti

Una fetta di mito, mito maledetto.

Shashlik, stake, shawerma, kebab*

Scegli, mangia quel che ti piace,

le ustioni sono le stesse sotto qualunque nome.

Il telefono squilla: Pronto… pronto…pronto…

Non c'e' telefono per la mia terra.

Sono privato della tua voce, privato d'udire

Il pianto della tua nascita

Privato perfino del rantolo della tua morte

Io sto sul palcoscenico senza sapere la mia parte.

Il suggeritore ubriaco mi ha dato il ruolo d'un ladro,

e io sono il poeta.

Io sto nel circo, ridendo d'un elefante

Che balla su palle di gomma.

Rido dell'elefante dalle zanne segate

E la sega sulla fronte.

Ma guarda, patria mia, guarda colui che ride:

e' il tuo poeta decapitato.

voi siete le mie testimoni in faccia allo Sciah.

Io so che moriro', non ho mai cinto una spada,

so che moriro', ma esigero' il duello e vorro' battermi

anche se so che moriro'.

*Cibi arabi



Poesia per la Rubrica dei Lettori nel giornale della Resistenza - 1969

Non vi arrabbiate se in questo tempo

Di polvere da sparo e di tremori

Non vi porto un canestro di proiettili e granate.

Non vi arrabbiate se io non uso la poesia come pubblicita'

E se la mia mano non gareggia con altre mani tese

Verso le tessere di socio.

Vi sono molti portatori di tessera

Che derubano le loro tessere del loro onore.

Ad essi ho lasciato l'occasione

Di descrivere il volto del mulino a vento

E l'epopea dell'albero d'ulivo.

Voi che scrivete le nostre ferite come notizie

E come notizie le leggete

E noi siamo nei vostri album soltanto fotografie di morti

Vorrei che una volta scriveste sulle menzogne e sull'ipocrisia,

che distingueste tra aste di bandiere e pali per l'impiccagione.

Vorrei che scriveste

Sulla prigione che e' sotto di noi e su quella al disopra,

che smascheraste I mille informatori

paracadutati dalla luna nottetempo sulle nostre montagne,

e lo squalo nel lago di specchio in attesa delle sue vittime.

Cari signori, la mano

Tiene la nostra testa come una melagrana

Voi che avete riscoperto la cella

Non uccidete la gallina d'oro

Che depone nei vostri orecchi ed occhi, e tasche, l'uovo d'oro.

La nostra pelle… cartaccia per la stampa

Usata ogni giorno per avvolgere la patria.

State attenti alla nostra pelle,

al nostro volto, state attenti,

perche' ovunque vi siete arrampicati a far la luna piena,

sempre foste abbattuti.








janet


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janet
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Posted - 13 August 2003 :  22:40:12  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando
Palestina, Terra Santa
gerusalemme-città vecchia





CHI SONO I PALESTINESI?


La propaganda sionista ha, da sempre, cercato di negare l'esistenza dei palestinesi, contestando addirittura che fosse mai esistita la Palestina. Facendo cio', non soltanto cercava di demolire il senso d'identita' e di appartenza di un intero popolo, ma cercava altresi' di rendere veritiero lo slogan di partenza del sionismo: Una Terra senza popolo per un popolo senza terra. Dopo essersi accorti, invece, che non soltanto la Palestina esisteva come entita', ma che essa non era una terra vuota, e dopo essersi riavuti dal trauma davanti al quale poteva infrangersi il loro sogno, I sionisti hanno dedicato le loro energie ad estirpare il sentimento nazionale dei palestinesi e le tracce della loro storia e della loro millenaria presenza in Palestina, cui faceva da contraltare una millenaria assenza dei sionisti dallo stesso territorio. Arrivati in Palestina a ridosso degli anni 40, gli ebrei erano eterogenei rispetto alla popolazione indigena in tutto e per tutto. Globalmente appartenevano al mondo europeo. Consapevoli essi stessi di essere alieni al territorio ed alla popolazione, si diedero da fare per mutare la storia a loro favore. Desiderando creare una sorta di legame ideale col territorio, che giustificasse in un certo senso la loro presenza in Palestina agli occhi degli occidentali, si fecero interpreti di una ricostruzione del passato che non aveva attinenze con la realta', ingigantendo a dismisura il periodo storico (peraltro molto limitato) in cui effettivamente tribu' ebraiche abitarono la Palestina e facendo della diaspora un evento centrale nella loro storia. Naturalmente i palestinesi erano esclusi dalla loro ricostruzione storica, essendo considerati, dalla propaganda sionista, discendenti degli arabi che conquistarono il paese nel VII secolo e quindi di molti secoli posteriori agli ebrei. "L' ignoranza - talvolta aiutata da una propaganda in malafede", scrive lo storico francese Maxime Rodinson, "ha diffuso a questo proposito molte concezioni errate". Infatti, in realta', I palestinesi sono I discendenti originari delle popolazioni semitiche autoctone della Palestina: Edumei, Cananei, Amorrei, Filistei (che, tra l'altro, hanno dato il nome al territorio), stanziatesi in Palestina nel 3000 a.C., quindi 1500 anni prima che le tribu' ebraiche provenienti dalla Mesopotamia si stabilissero li', ovviamente condividendo il territorio con gli altri popoli. Inoltre, a differenza delle popolazioni autoctone palestinesi che erano stanziali e sedentarie, le tribu' ebraiche erano nomadi, per cui si dispersero in varie zone del vicino oriente prima, in tutto il mondo poi, non lasciando dietro di se' alcun monumento, alcuna prova che dimostrasse la loro presenza stabile per un tempo accettabile in Palestina. Per 2000 anni sono vissuti in Europa, in Russia, in America, in Africa, diventando europei, russi, americani, africani, poiche' era implicito che essere ebrei significava condividere un credo religioso, non un'appartenenza etnica. Prova ne sia che i pochi ebrei rimasti in Palestina dopo la diaspora, erano ebrei palestinesi.

Deve essere chiaro, dunque, che gli arabi che conquistarono la Palestina nel VII secolo erano un ridotto contingente ed essi, a causa delle affinita' etniche con la popolazione palestinese, riuscirono ad arabizzare rapidamente la regione. La quale regione, ovviamente, all'arrivo dell'esercito arabo, non era vuota.

I palestinesi dunque sono "arabizzati" nella lingua e nella religione, e senza dubbio condividono lo stesso ceppo etnico degli arabi che conquistarono la Palestina, ma dire che essi hanno popolato il territorio a partire dal VII secolo equivale ad affermare una falsita' che non ha fondamento storico, dal momento che la Palestina non e' mai stata "vuota", in nessun momento della sua storia.

I sionisti si sono serviti di molte menzogne e di molte falsita' nella costruzione della loro storia: essi possono ingannare l'occidente, ma gli arabi sanno, ed anch'essi sanno, che la Palestina appartiene ai palestinesi.



ESODO FORZATO DALLA PROPRIA TERRA E DISPERAZIONE DAVANTI ALLA PROPRIA CASA CONFISCATA E RECINTATA



A QUESTO PROPOSITO, ECCO COSA SCRIVE, NEL 1896, THEODOR HERZL, FONDATORE DEL SIONISMO, IN "LO STATO EBRAICO":

"E' da preferire la Palestina o l'Argentina? La Societa' prendera' cio' che le verra' dato, tenendo conto della pubblica opinione del popolo ebraico. La Societa' verifichera' entrambe le cose.

L'Argentina e' uno dei paesi piu' ricchi di risorse naturali della terra, dotata di enormi distese, scarsa popolazione e clima temperato. La Repubblica argentina sarebbe molto interessata a cederci una parte del suo territorio. L'attuale infiltrazione ebraica ha prodotto solo irritazione; bisognerebbe informare l'Argentina sulla sostanziale differenza della nuova immigrazione ebraica.

Se invece sua Maesta' il Sultano ci concedesse la Palestina, ci potremmo impegnare, per sdebitarci, a risistemare le finanze della Turchia. In favore dell'Europa costruiremmo la' una parte del vallo per difenderci dall'Asia, costituendo cosi' un avamposto della cultura contro la barbarie…"



Una scuola di Jaffa: ragazzi e maestri, mai piu' cosi'! Deportati dalla loro terra, senza piu' nulla, se non una tenda!
















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Posted - 13 August 2003 :  23:01:04  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando

Pellerossa e palestinesi: l'inerente lotta per la liberta' e la giustizia



"... attraversai queste terre da est a ovest e vidi soltanto guerrieri Apache sulle regioni dei miei padri. Le attraversai dopo molte estati e incontrai gente di un'altra razza che era venuta per impadronirsi delle nostre terre. Ora gli Apache si aggirano per le pianure e desiderano che il cielo cada su di loro..." - Cochise, capo Apache

Poche persone possono essere ottuse quanto il 26esimo presidente USA Theodore Roosevelt riguardo l'eredita' degli Stati Uniti verso il popolo nativo di quella terra. Nella sua narrazione, "La conquista del West", Roosevelt racconto' del "propagarsi di popoli anglofoni nei vasti spazi della terra". Egli scrisse: "I coloni europei si spostarono in lande disabitate ... in una terra posseduta da nessuno ... I coloni non scacciarono alcuno. La verita' e' che gli indiani non avevano mai avuto nessun titolo reale su quella terra".
In un'intervista al Sunday Times britannico, il 15 giugno 1969, l'ex primo ministro Golda Meir fece asserzioni simili, affermando: "Non vi e' nulla che si possa definire palestinesi. Non vi e' un popolo palestinese in Palestina che si consideri 'popolo palestinese', che noi abbiamo buttato fuori per appropriarci della loro terra. I palestinesi non esistono".

I pellerossa ed i palestinesi sono gli antichi abitanti indigeni delle loro terre, ma, per i coloni stranieri, cio' non aveva rilevanza alcuna. Cio' che importava era il "Destino Manifesto", cio' che importava era il "sionismo".
Roosevelt continua: "Probabilmente il mondo non sarebbe mai andato avanti se non fosse stato per la sommersione di popoli selvaggi e barbari in conseguenza della colonizzazione armata in terre straniere da parte di razze che avevano nelle mani il destino dei secoli".


Durante la meta' degli anni '40, Davide Ben Gurion dichiaro' che Israele stava adottando un sistema di "difesa aggressiva. Risponderemo ad ogni attacco arabo con un'esplosione decisiva: la distruzione del luogo e l'espulsione dei residenti insieme alla confisca del luogo".

I miei nonni, mia madre e mio padre, insieme a quasi un milione di altri palestinesi, furono espulsi dalla loro terra dopo la brutale distruzione di 418 villaggi e citta' e l'assassinio di migliaia di palestinesi. Si dispersero in ogni direzione, a piedi, per fare spazio al Popolo Eletto. Ripararono in campi profughi, campi di concentramento, che sono ancora in piedi. I miei nonni, mia madre e mio fratello maggiore sono seppelliti in uno di quei campi. Mio padre ed i miei fratelli ancora ci vivono.

Ben Gurion si ritiro' nel 1963, quattro anni prima che Israele invadesse cio' che restava della Palestina: la Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme est. Fu l'inizio di una nuova tragedia, di altro dispossesso, tutto perche' lo stato d'Israele diventasse puramente ebraico. Israele sfido' la legge internazionale che imponeva il ritorno dei profughi palestinesi. Al suo posto, esso istitui' la sua legge, poco dopo la sua creazione nel 1948, che prevedeva il diritto alla Palestina per qualsiasi ebreo, e solo per essi. Chiunque fosse di razza ebraica (sic!), in qualunque parte del mondo fosse nato e vissuto, aveva il permesso di entrare in Palestina, di ottenere la cittadinanza, di vivere senza problemi in una terra che non gli apparteneva, in un luogo a cui non apparteneva.

In tutta questa ferocia, furto di terre e disumanizzazione delle vittime, sia gli Stati Uniti che Israele sono riusciti a convincere se' stessi che il modo in cui trattavano le loro vittime era in realta' umano e civile. "Nessuna altra nazione colonizzatrice ha mai trattato i selvaggi possessori del suolo con tanta generosita' quanto gli Stati Uniti", disse Roosevelt.
Ma il generale Didi, dell'esercito israeliano, chiede di essere diverso. Didi e' l'uomo che sorveglio' la storica invasione di Jenin dello scorso anno.

Il 2 aprile 2002, Israele attacco' il campo profughi per due settimane nel completo silenzio della comunita' internazionale. Per due settimane, centinaia di carriarmati, di elicotteri Apache, di aerei da guerra F-15 ed F-16 e migliaia di soldati brutalizzarono e terrorizzarono i 13.000 abitanti del campo, che si estendeva su appena un chilometro quadrato di terra. Gli abitanti del campo lottarono come poterono con esplosivi fatti in casa, coltelli da cucina e poche pallottole. Essi lottarono e rifiutarono di arrendersi poiche' capirono che quella era la loro ultima lotta. Alla fine dell'invasione, centinaia di corpi palestinesi furono lasciati a decomporsi nelle strade di Jenin poiche' Israele rifiuto' alla Croce Rossa l'accesso al campo per raccogliere i cadaveri. L'intera popolazione fu costretta ad evacuare, mentre circa 2000 case di profughi furono distrutte o seriamente danneggiate dai carriarmati, i bulldozers, i bombardamenti aerei.

Ecco cosa disse Dani il Kurdo, che era alla guida di un bulldozer, in una testimonianza su cio' che avvenne al campo riportata da Yediot Aharonot:
"Molta gente era dentro le case che iniziavamo a demolire. Venivano fuori mentre noi ci lavoravamo. Provavo gioia ogni volta che tiravo giu' una casa, perche' sapevo che a loro non interessa morire, ma gli interessa delle loro case. Se butti giu' una casa, seppellisci 40-50 persone per generazioni. Se mi dispiace di qualcosa, e' del fatto di non aver buttato giu' tutto il campo. Ecco quello che pensavo a Jenin. Non me ne importava un c*. Se mi avessero dato tre settimane, mi sarei divertito davvero. Cioe', se mi avessero dato l'opportunita' di buttar giu' tutto il campo. Non ho pieta' ".

Lasciate che vi ripeta cio' che Roosevelt disse sulla condotta dei suoi eserciti: "Nessuna altra nazione colonizzatrice ha mai trattato i selvaggi possessori del suolo con tanta generosita' quanto gli Stati Uniti".
Le parole di Roosevelt sono risuonate, qualche mese fa, per bocca del comandante dell'esercito israeliano a Jenin, generale Didi. "L'esercito israeliano si e' comportato come il piu' morale ed il piu' accurato esercito al mondo".

Vorrei spostare i miei pensieri dal loro corso terminando con queste grandi parole tratte dal Grande Concilio degli Indiani d'America del 1927:

"Noi vogliamo la liberta' dall'uomo bianco e non l'integrazione. Non vogliamo essere una parte del sistema, vogliamo essere liberi di crescere i nostri figli secondo la nostra religione e le nostre tradizioni, di cacciare e pescare e vivere in pace. Noi vogliamo essere noi stessi. Vogliamo il nostro retaggio, perche' noi siamo i possessori di questa terra ed apparteniamo ad essa.
L'uomo bianco dice che c'e' liberta' e giustizia per tutti. Noi abbiamo gia' assaggiato la sua "liberta' e giustizia" ed ecco perche' siamo stati sterminati quasi tutti. Non potremo dimenticarlo".
Simili ad esse, le parole che pronucio' l'amministratore del campo profughi di Jenin, Abdel Razik al-Hayjah, all'indomani del massacro:
"Se distruggeranno il campo cento volte, il popolo di Jenin lo ricostruira' sempre, perche' il nostro coraggio e la nostra determinazione aumentano ogni volta. Piu' Israele brutalizza i palestinesi, piu' la loro resistenza si rafforza. Israele non risolvera' i suoi problemi con la forza. La lotta palestinese per la liberta' non puo' essere fermata. Fa parte della natura umana resistere per riconquistare la liberta'.
La gente di Jenin non odia gli israeliani perche' il loro nome e' differente, o perche' la loro lingua e' differente, ne' perche' la loro religione e' differente, ma perche' essi sono gli occupanti, e finche' saranno occupanti la resistenza continuera'. La resistenza palestinese vivra' fino a quando vivra' l'occupazione".



E’ giunto il momento che ve ne andiate
e dimoriate dove volete, ma non tra noi.
E’ giunto il momento che vi ne andiate
e moriate dove volete, ma non tra noi.
Abbiamo nella nostra terra cio' che fare
il passato qui è nostro
è nostra la prima voce della vita
nostro il presente … il presente e il futuro
nostra, qui, la vita …e nostra la vita eterna.
Fuori dalla nostra patria …
dalla nostra terra … dal nostro mare
dal nostro grano … dal nostro sale …dalla nostra ferita - Mahmud Darwish, poeta palestinese






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Posted - 13 August 2003 :  23:22:48  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando
Il cetriolo ed il cactus

"E' semplicemente impossibile sradicarli. Appartengono a quella terra ostinatamente, come i figli della Palestina. Le radici sono altrettanto antiche e profonde..."






Mazen Qumsiyeh, professore associato di genetica e direttore dei servizi di citogenetica alla Yale University School of Medicine, e' fondatore e presidente della Holy Land Conservation Foundation ed ex-presidente della Middle East Genetics Association. E' co-fondatore e tesoriere nazionale di al-Awda, la Coalizione Palestinese per il Diritto al Ritorno, e scrive estensivamente del Medioriente.
C'e' qualcosa di unicamente spirituale, quasi primordiale, nella connessione tra uomo e terra. Anche coloro tra noi che lavorano e vivono in una cultura mobile e sofisticata, troveranno piacevole toccare la terra con le mani, o camminare in un prato.
E' qualcosa che ci lega al nostro passato ancestrale, dimostrandoci che centomila anni di evoluzione sono piu' potenti di una vita trascorsa in incubazione nelle societa' industrializzate, a fare la corsa dei topi a lavoro e piu' lavoro.
Per noi palestinesi la connessione alla terra e' parte del nostro patrimonio genetico. Dopo tutto, piu' del 90% tra noi hanno praticato l'agricoltura dalla notte dei tempi. Vivere da profughi non ha cancellato ne' diminuito questo istinto naturale. Come spiegare diversamente le piantine d'erbe aromatiche coltivate con cura in lattine vuote solo per ricreare alcuni elementi della perduta vita nei nostri villaggi distrutti ed occupati?
Anche se fosse impossibile dimostrare la connessione fisica alla terra, rimarrebbe quella spirituale e linguistica. Il dialetto palestinese e' pieno di detti e proverbi che ricorrono al linguaggio dell'agricoltura. Quando le cose diventano troppo difficili, esclamiamo "La vita e' troppo complicata per un fellah (paesano, contadino) di ... (nome del villaggio)". Ognuno di noi brama la semplice vita che ci fu strappata e, cosa ancora piu' importante, ognuno di noi ha un pezzo di quella vita che risiede in lui, nei piu' profondi recessi della sua mente.

Le radici



Era la dolce estate del 1994 quando sedevo con i miei nonni paterni e li riprendevo con la telecamera per l'ultima volta. Sedevamo sul balcone che si affacciava sul bellissimo monte di Abu Ghneim, allora coperto di foreste. Dietro le dolci colline potevamo vedere Gerusalemme.
Mia nonna, malata terminale, poteva alzarsi dal letto solo pochi minuti al giorno. Mori' un anno dopo, seguita a ruota da mio nonno. "Sitte", la nonna, cercava di non mostrare mai il suo dolore, specie di fronte al nonno, a "sido". Lui cercava di rassicurarla con un semplice sguardo, un tocco della mano, una domanda ripetuta. Nei loro visi vicini e solcati di rughe profonde potevi leggere cosi' tanto in cosi' poche parole. Mio nonno, allora 88enne, aveva vissuto tutta la sua vita in Palestina e dunque non era estraneo al dolore. La sua vita, in realta', incapsulava interamente la moderna narrativa palestinese e gettava un'ombra che si allungava ben oltre i suoi diretti discendenti, otto figli e piu' di 40 nipoti. Certamente ha impresso la mia vita.

Come i suoi antenati e la maggior parte dei suoi discendenti, mio nonno era nato nel nostro piccolo villaggio di Beit Sahour. Beit significa casa e Sahour e' un'allusione allo stare svegli di notte. Locato tra le colline a mezza strada tra il Mediterraneo ed il Mar Morto, il suo nome si riferisce ai pastori che duemila anni fa videro una stella e camminarono fino alle colline di Betlemme, dove era nato Gesu'.
La casa dei miei nonni era letteralmente sotto la collina dove, secondo la tradizione, era nato il Messia. Io ci passavo tutti i giorni, quando andavo a scuola a Betlemme, e mi fermavo spesso in meditazione nella Chiesa del Santo Sepolcro. Altre volte, un gruppetto di noi si avventurava sulle colline. Mangiavamo radici selvatiche, i frutti dello za'rur (un albero simile al melo, ma dai frutti non piu' grandi di un'oliva) e, talvolta, usavamo le fionde per cacciare qualche uccellino. Le mie visite a casa dei nonni diventavano frequentissime durante la stagione dei fichi, delle albicocche, dell'uva e delle mandorle di cui era pieno il giardino del nonno. Occasionalmente, sido coltivava il prodotto agricolo piu' famoso di Beit Sahour, il "faggus", un piccolo cetriolo dolce che cresce nel fertile suolo rosso delle colline attorno Betlemme. Gli abitanti del villaggio vivono di agricoltura da almeno 3000 anni - faggus, grano, olive, mandorle, fichi ed uva sono i prodotti migliori.
Essi hanno vissuto pacificamente, ma non sono omogenei. La moschea e la chiesa erano e sono l'una a fianco dell'altra. Vi erano dispute occasionali, naturalmente, ma non tra cristiani e musulmani, non per religione. Le dispute familiari venivano ricomposte con l'intervento degli anziani della famiglia, che solo degli adolescenti scatenati come noi osavano sfidare.
Per millenni persiste' una meravigliosa armonia tra esseri umani e natura. Negli ultimi decenni la vita di questo villaggio e' cambiata drammaticamente.

Dopo un'infanzia difficile, mio nonno, studiando duramente, era riuscito a diventare uno dei pochi insegnanti del villaggio. Mia nonna, Emilia, proveniva da una rispettabile famiglia di Nazareth, e dedico' la sua vita, come la maggior parte delle donne palestinesi, ad allevare i figli, otto. Non furono tempi facili: vi fu la depressione economica degli anni '30, la brutale oppressione britannica che porto' alla Grande Rivolta palestinese del 1936, il terrorismo praticato dai primi colonialisti ebraici e poi la Nakba, l'espulsione dei due terzi dei palestinesi dalla loro terra ancestrale, devastata, occupata e colonizzata dal nuovo "stato d'Israele".
Mio nonno mi racconto' tutto cio' nel 1994, durante le mie ultime visite alla sua casa: di come la Palestina fu costretta a soccombere dinanzi al sionismo. Mi racconto' di come lentamente i sionisti rubarono la Palestina, dalle piccole leggi create per loro dai britannici, all'espulsione e la confisca. Mi racconto' anche di come i palestinesi delle tre religioni, cristiani, musulmani ed ebrei avessero vissuto in pace ed armonia per secoli, prima che la bestia del sionismo, e la sua visione di uno stato etnico, basato sul razzismo e l'apartheid, mettesse piede in Palestina, causando lutti e tremende sofferenze ai nativi palestinesi delle tre religioni.

Il nonno ripeteva spesso che anche il sionismo, come tutti gli oppressori della Palestina, dai Romani ai britannici, sarebbe passato, e tornava indietro, alle radici nabatee e cananee dei palestinesi. La nostra resistenza e' una persistenza nel territorio che trascende il potere degli imperi.

La Guerra del 1967

Di fronte all'avanzare dei sionisti in profondita' nella Cisgiordania, gli adulti si chiedevano cosa fare. C'era la guerra, i villaggi palestinesi venivano bombardati, ma la lezione era recente: coloro che durante la guerra del 1948 avevano lasciato le loro terre non erano piu' potuti rientrare. Cosi' dormivamo vestiti, pronti a metterci in salvo appena necessario.
Durante quei sei giorni, Israele occupo' il restante 22% della Palestina storica, la Cisgiordania, allora occupata dalla Giordania (Giordania ed Israele avevano pattuito la spartizione della Palestina gia' da decenni) e la striscia di Gaza. Ricordo i carriarmati scivolare dai pendii delle nostre colline, fino al villaggio, e mio padre che ci prendeva e ci nascondeva in una caverna, mentre i jet da guerra sorvolavano le nostre abitazioni. Ci trasferimmo dai nonni: la loro casa era grande, il loro giardino rigoglioso ed il loro amore infinito.
300.000 palestinesi furono costretti a lasciare le loro case, nella seconda ondata di espulsioni dopo la nakba. Immediatamente dopo l'occupazione Israele comincio' a confiscare la terra palestinese ed a costruirvi colonie ebraiche. Prendevano le terre agricole, le terre migliori. I contadini venivano lasciati senza risorse: migliaia di essi furono costretti a lavorare alle costruzioni di quelle stesse colonie che li strangolavano ed alle strade di accesso che oggi occupano il 42% della Cisgiordania. A differenza dell'occupazione giordana, quella israeliana fu brutale e vergognosa, tesa a farci andare via con la forza. Arresti arbitrari, torture, sparizioni, omicidi casuali, demolizioni di case e privazioni economiche erano, e sono, la norma. Subito dopo la guerra del 1967, i profughi persero immediatamente qualsiasi diritto sulle loro proprieta', che furono dichiarate "proprieta' di assenti" e devolute allo Jewish National Fund che, secondo la sua definizione, "amministra le terre a nome dei possessori della terra d'Israele, gli ebrei che sono in tutto il mondo".

I profughi

I miei genitori, entrambi insegnanti, avevano fatto il possibile per tenere noi bambini lontani dalle brutture che il popolo palestinese si trovava a dover vivere. La mia vita ovattata termino' un giorno del 1976, quando avevo 19 anni e studiavo biologia all'universita' Giordana. Studiavamo i pipistrelli della Giordania. Con il gruppo di lavoro, arrivai alla citta' di Jerash, presso la foresta di Dibbine, dove tali volatili sono comuni. Dopo due ore di cammino sotto il sole cocente di luglio, mi imbattei in un gruppo di bambini che giocavano in un piccolo wadi (valle secca). Chiesi a loro se conoscevano caverne in cui si nascondevano pipistrelli. Due dei bambini piu' grandi si offrirono di accompagnarmi, quattro piu' piccoli ci seguirono. [...] Dopo aver terminato il mio lavoro, chiesi ai bambini dove avrei potuto fermarmi a bere qualcosa. Con la tipica ospitalita' araba, uno dei due bambini grandi insiste' affinche' andassi a casa sua. Mi indico' la "citta' " giu': era il campo profughi palestinese di Jerash, con le sue centinaia di case con tetti di lamiera che riflettevano il sole. Il fratello piu' piccolo corse a casa ad avvisare che stava arrivando un ospite. Non avevo mai visto un bambino correre cosi' velocemente prima. Lungo la strada, parlai con gli altri bambini, non dei pipistrelli, ma della loro vita. Facendomi sentire colpevole, mi nominarono villaggi di cui non avevo mai sentito parlare. Erano i villaggi palestinesi da cui genitori e nonni erano stati scacciati nel 1948. Mi parlarono delle bayyarat (fattorie di cedri), degli haquras (gli orti delle abitazioni), delle grandi case di pietra e di tante altre cose distanti dalla loro realta' attuale. Nessuno di essi aveva mai visto quei luoghi, ma le descrizioni erano cosi' vivide e reali che non si poteva non pensare alle volte in cui i bambini avevano ascoltato il racconto dei vecchi, nei minimi dettagli.

La "casa" che visitai quel giorno era una catapecchia di due stanze, non piu' grande di un fazzoletto. Il tetto era fatto di lamiera. La stanza in cui entrai era piccola e pulita, ma affollata, e serviva da stanza da pranzo e da letto. Un tavolinetto al centro della stanza era stato preparato con frutta, noccioline, limonata, una teiera ed alcune tazze. Mi sentivo svuotato e confuso. Chiesi ai miei giovani ospiti perche' erano li' e non in Palestina. "Perche' gli ebrei volevano la nostra terra", fu la risposta disarmante.
Mentre tornavo a casa, al tramonto, molti pensieri attraversavano la mia mente. Le fotografie fatte alla caverna dei pipistrelli, al campo profughi ed ai bambini erano improvvisamente diventate foto in bianco e nero, molto piu' antiche di quello che erano in realta'.

Resistenza

La resistenza palestinese, come quella di altri popoli colonizzati, ha preso diverse forme, non violente e violente. Tutte le forme rappresentano l'inevitabile risposta ai sistemi coloniali, come quello, disperato, opposto dai nativi d'America contro i bianchi che li massacravano a milioni. I palestinesi che resistevano alla confisca delle terre dovevano affrontare poi la politica del "pugno di ferro" israeliana. Un contadino che conoscevo fu ucciso mentre cercava di tornare ai suoi campi sulla terra che l'autorita' d'occupazione aveva confiscato. Un mio parente si vide demolire la casa perche' suo figlio, 12 anni, aveva tirato sassi contro una vettura militare israeliana. Mio cognato fu imprigionato diverse volte senza nessuna accusa, secondo la legge che prevede arresti "amministrativi" fino a sei mesi per ciascun palestinese, senza accusa e senza processo. Arrestato e rilasciato, di sei mesi in sei mesi, torturato (il risultato di quelle torture sono gravi problemi ai reni), aveva l'unica colpa di essere un giornalista e di denunciare la sofferenza palestinese. Tentavano cosi' di ridurlo al silenzio.
La mia esperienza dell'occupazione e' quella che vivono quotidianamente tanti giovani palestinesi: percosse, umiliazioni, ispezioni corporee e razzismo. Come insegnante in una scuola di Betlemme, fui testimone e protagonista di un'aggressione condotta contro la mia classe da un gruppo di militari che bastonarono ragazzi e ragazze dopo aver gettato, improvvisamente, lacrimogeni nell'aula in cui facevamo lezione. Per essermi ribellato, come insegnante, fui spinto a terra ed arrestato per sette ore insieme a molti dei miei studenti. Mi sono chiesto molte volte cosa provoco' quella violenza. Nulla, assolutamente nulla. La mia spiegazione, l'unica che riesco ancora a darmi, e' che soldati annoiati desideravano un po' di "movimento".

Da cio' che ho visto e vissuto, posso dire che i piu' maltrattati sono i profughi del 1947-49 e quelli che ancora vivono nelle aree agricole occupate dopo il 1967. Israele vuole le terre palestinesi e rendera' la vita dei loro proprietari sempre piu' amara fino a che questi non decideranno di andar via.
Intanto le terre palestinesi vengono confiscate a ritmo sempre crescente. Israele ha gia' confiscato ampie porzioni di terra della parte nord di Beit Sahour a favore della colonia illegale di Har Homa. Negli ultimi 35 anni, le colline attorno a Gerusalemme sono state deturpate, trasformate, coperte da abitazioni a prezzo molto conveniente per gli ebrei di tutto il mondo che decidano di voler vivere nella nostra terra. Gli occhi stanchi dei miei genitori, dalla loro casa di Beit Sahour, hanno visto l'insediamento colonico di Har Homa crescere sempre piu' sul monte di Abu Ghneim, fino a trasformarlo, sino a minacciarlo.
I bei tempi sono andati, mi dicono quando ci sentiamo al telefono. Quando facevamo i pic-nic ad Abu Ghneim, andavamo a fare compere a Gerusalemme, facevamo il bagno nel Mar Morto e raccoglievamo fiori sulla montagna. Quegli appartamenti vuoti e pretenziosi, che si ergono arroganti sulle nostre teste, ci impediscono persino di vederla, Gerusalemme. Per non parlare delle autostrade by-pass per soli coloni ebrei che tagliano l'accesso in citta' a tutti i palestinesi della Cisgiordania, eccetto a quelli che ci vivono gia'.

Guardando tra le foto, mi soffermo su quella di Hiyam al-Sayed, ripresa nella nostra casa del Connecticut. Si tratta della bimba palestinese che arrivo' in Connecticut per ottenere un occhio artificiale. Era stata sparata in un occhio da un cecchino israeliano mentre camminava in strada con sua madre. Ha catturato i nostri cuori. Dal momento che sono un cittadino americano, realizzo che le mie tasse servono per finanziare questo tipo di oppressione. Con le mie tasse, contribuisco all'assassinio del popolo palestinese ed al protarsi di questa guerra ingiusta. E' un carico pesante da portare.

I cactus

Tra il 1947 ed il 1949, piu' di 450 villaggi e citta' furono distrutti ed i loro alberi demoliti. Nel 1967, gli abitanti di altri villaggi, tra cui il biblico Emmaus, furono sradicati. Emmaus fu distrutto da Israele dopo la guerra del 1967 ed al suo posto, oggi, vi e' un parco nazionale, popolato di alberi giunti come dono dal Canada.
Israele sradico' decine di migliaia di alberi d'olivo, 100.000 dei quali in soli dieci anni nella sola Cisgiordania. Eppure vi sono ancora alberi d'olivo, alcuni cosi' vecchi da risalire al tempo in cui Gesu' camminava per questa terra. Questo e' il tempo tradizionalmente dedicato alla raccolta delle olive, ma, quest'anno, il governo ed i coloni israeliani hanno impedito ai palestinesi di raccogliere i frutti di cio' che resta dei loro olivi.


Ma la storia del cactus e' la piu' interessante. In Palestina, i campi dei diversi villlaggi erano delimitati da piante di cactus. Quando questi furono demoliti con i bulldozers, a partire dal 1947, avvevve qualcosa di singolare. I cactus ricrescevano nei punti esatti da cui erano stati sradicati. E' semplicemente impossibile sradicarli. Appartengono a quella terra ostinatamente, come i figli della Palestina. Le radici sono altrettanto antiche e profonde. Cosi', nell'attuale Israele, in molti luoghi lasciati a se' stessi, i cactus crescono in fila nello stesso modo in cui, centinaia di anni fa, furono piantati dalle mani dei nativi. Duro fuori, tenero all'interno, con meravigliosi fiori gialli e rosa, il cactus e' diventato una metafora dei palestinesi, e viene cantato nelle canzoni e nei poemi nazionali.
Ci aggrappiamo alla speranza ed alla certezza che, come accaduto in Sudafrica, riusciremo un giorno a ritornare a vivere pacificamente nella nostra terra, la Terra di Canaan, la Terra Santa. Palestinesi musulmani, cristiani ed ebrei avevano condiviso la vita in quel luogo per migliaia di anni prima che la Gran Bretagna e le potenze coloniali occidentali adottassero il Sionismo e la sua distorsione razzistica ed impossibile. Solo allora la pioggia che filtra nel suolo benedetto in cui mio nonno ed il suo migliore amico, un ebreo di Palestina, sono sepolti, riuscira' a nutrire nuovi campi di faggus, i cetrioli dolci, e di ostinati cactus.



da "Palestine Chronicle"




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Posted - 13 August 2003 :  23:39:37  Vedi Profilo Send janet a Private Message  Rispondi quotando
ESPLORANDO LE ANTICHE TRADIZIONI DELLA PALESTINA

cio' che i nostri nonni ci hanno raccontato di come era la loro vita in Palestina prima dello sradicamento



LE CONDOGLIANZE
Quando una persona moriva, la vita nei villaggi si fermava. Uomini e donne ricevevano le condoglianze in stanze diverse della casa. Agli uomini si serviva caffe' nero, mentre le donne si lamentavano ed intonavano canti tradizionali in memoria del defunto. Durante il periodo del lutto stretto, che durava normalmente tre giorni, il cibo veniva offerto dai parenti, gli amici ed i vicini di casa della persona deceduta, ma tutti gli abitanti del villaggio erano tenuti a partecipare al lutto, portando in dono ai familiari del morto riso e caffe'. Questi ultimi di solito indossavano abiti bianchi, il colore tradizionale del lutto e, per tutta la durata del periodo, evitavano di cucinare cibi "delle feste", come torte, biscotti e il kobbe, un piatto augurale a base di carne e grano.

IL FIDANZAMENTO
Nei tempi passati, il fidanzamento veniva di solito "combinato" dalle famiglie, anche se era comunque necessario il consenso dei due giovani coinvolti. Le iniziali richieste di fidanzamento avvenivano, di norma, tra le donne delle famiglie. Solo se le donne trovavano un'intesa, entravano in campo gli uomini. Di solito il padre e gli zii del ragazzo chiedevano ufficialmente la mano della giovane ambita e, se la richiesta era accettata, si concordava l'ammontare della dote (dono nuziale in oro che lo sposo era tenuto a versare alla sposa) e, dinanzi ad almeno due testimoni, la lettura del primo capitolo del Corano sanciva l'avvenuto fidanzamento.

IL MATRIMONIO
Nei matrimoni, la sposa e le donne della sua famiglia indossavano i thobe, bellissimi abiti tradizionali ricamati a mano secondo l'antica arte del punto a croce palestinese. L'abito della sposa veniva immerso in acqua profumata, le sue mani ed i suoi piedi decorati con henna. Le celebrazioni del matrimonio duravano di norma un'intera settimana, durante la quale tutti, conoscenti, amici, concittadini e parenti, partecipavano alle feste in onore degli sposi. Amici e vicini di casa offrivano in dono sacchi di riso, agnello e caffe', mentre i parenti donavano oro, denaro e pezzi di mobilio alla nuova coppia.

Le canzoni matrimoniali, tradizionalmente, contenevano una nota di tristezza, come quella cantata dalle giovani spose che lasciavano le proprie madri per una nuova casa:
"Mamma mamma, conserva il mio cuscino per quando tornero'
Mamma, mamma, non piangero' baciando i miei fratelli e le mie sorelle
Mamma, mamma, conserva il mio fazzoletto per me
Per quando andro' a salutare tutti i miei amici".

La notte delle nozze, lo sposo e la sposa, a cavallo, facevano un giro augurale per il villaggio, fino a raggiungere la piazza principale, dove i ragazzi cominciavano a ballare il debki. I giovani formavano due file opposte, mentre le ragazze danzavano al centro delle file. Era d'obbligo che la madre e le sorelle dello sposo danzassero il debke.
Infine, veniva preparato uno speciale piatto per gli sposi: agnello ripieno di riso e noci, di solito offerto dalle nonne o, comunque, dai membri anziani della famiglia. La mattina successiva, la colazione per gli sposi veniva preparata dalle madri e consumata insieme ai quattro genitori.







janet


Un cuore non può bastare per due.
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