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romantico
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Posted - 06 March 2009 :  15:07:24  Vedi Profilo Send romantico a Private Message  Rispondi quotando
La leggenda della Fata Morgana
La leggenda racconta che, nelle giornate di cielo sereno, la Fata Morgana si affacci dalle acque dello Stretto di Messina e faccia rimbalzare tre sassi sulla distesa azzurra, facendo apparire figure di palazzi e foreste.

Il mito la vuole potentissima maga, abile a stupire i siciliani facendo apparire immagini illusorie sul mare. In realtà, non ci sarebbe nulla di magico,consisterebbe in un fenomeno visivo che si verifica, in particolari condizioni atmosferiche. Un’illusione ottica dovuta ad un’inversione di temperatura negli strati bassi dell’atmosfera, quelli che sono a contatto con il mare, soprattutto nelle prime ore del mattino, quando il cielo è più terso, a causa della diversa densità dell’aria, dalla sponda è possibile vedere le immagini della città costiera riflesse e persino moltiplicate dal mare, trasformato in un immenso specchio.

Eppure, nonostante le cause scientifiche del fenomeno, in Calabria e Sicilia la magica città sulle acque, unica al mondo perché visibile da due diverse sponde, Reggio e Messina, è tramandata da secoli come il castello della Fata Morgana la sorella del bretone re Artù, che, accompagnato il sovrano sulle pendici dell’Etna, si innamorò della Sicilia al punto di stabilire nelle acque dello Stretto la sua residenza.

Vittima di questa malia, secondo le leggende isolane, fu un re dei barbari sulla via della conquista della Penisola. Si racconta che il barbaro, arrivato a Reggio Calabria, progettasse l’invasione della vicina Sicilia ma non possedesse imbarcazioni per raggiungere la terra bramata. Ad offrirgli un ingannevole aiuto fu proprio Morgana, che con un cenno disegnò la costa siciliana a due passi dalla costa reggina dove si trovava il re dei barbari. Questi, ebbro di conquista, si lanciò verso le case e le spiagge assolate che vedeva vicinissime e affogò.

Andò meglio a Ruggero il Normanno, il sovrano era stato scelto dai siciliani per prendere il comando della guerra che avrebbe sciolto l’isola dall’egemonia degli arabi, che ne avevano fatto una terra musulmana. Ruggero aveva accettato l’impresa, ma non disponeva di un esercito abbastanza numeroso. Anche stavolta Morgana volle aiutare lo straniero, materializzando sullo Stretto, un esercito invincibile e un cocchio pronto a traghettare Ruggero in Sicilia. Il normanno, però, rifiutò l’offerta perché, fervido credente, voleva liberare l’isola con il solo aiuto del Dio cristiano a cui si affidava. L’epilogo della fiaba è nella storia. Nel 1061 Ruggero sbarcò a Messina e iniziò la decennale guerra contro gli Arabi liberando la Sicilia e facendone una prosperosa terra cristiana.


(Presa dalla rete)




Tra Miti e Leggende
La Fata Morgana

Se in una calda giornata estiva, passeggiando sullo splendido lungomare reggino che D'Annunzio definì "il più bel chilometro d'Italia", vi capitasse di vedere paesi e palazzi della costa siciliana deformarsi e specchiarsi tra cielo e mare, vicini a tal punto da distinguerne gli abitanti, non dovete impressionarvi. Siete solo vittime di un incantesimo. E' la Fata Morgana, un fenomeno ottico simile a un miraggio che si può osservare dalla costa calabra quando aria e mare sono immobili. La leggenda racconta che anche Ruggero I d'Altavilla fu incantato dal sortilegio. Per indurlo a conquistare la Sicilia, con un colpo di bacchetta magica la Fata Morgana gliela fece apparire così vicina da poterla toccare con mano. Ma il re normanno, sdegnato, rifiutò di prendere l'isola con l'inganno. E così, senza l'aiuto della Fata, impiegò trent'anni per conquistarla.

La costa siciliana, vista da quella calabrese, sembra distare pochi metri. Si possono distinguere molto bene le case, le auto e addirittura le persone che camminano nelle strade di Messina. Il tutto avviene quando sulla superficie del mare, minuscole goccioline di acqua rarefatta, fanno da lente di ingrandimento. Il fenomeno prende nome dalla Fata Morgana della mitologia celtica.

Questa è un’altra versione del mito della Fata Morgana.

Era agosto, il cielo e il mare erano senza un alito di vento, e una leggera nebbiolina velava l'orizzonte, durante le invasioni barbariche dopo avere attraversato tutta la penisola, un'orda di conquistatori giunse alle rive del mare Jonio nella città di Reggio Calabria e si trovò davanti allo stretto che divide la Calabria dalla Sicilia. A pochi chilometri sull'altra sponda sorgeva un'isola con un gran monte fumante, l'Etna, ed il Re barbaro si chiedeva come fare a raggiungerla trovandosi sprovvisto di imbarcazioni quindi impotente davanti al mare. All'improvviso apparve una donna meravigliosamente bella, che offrì l'isola al conquistatore, e con un cenno la fece apparire a due passi da lui. Guardando nell'acqua egli vedeva nitidi, come se potesse toccarli con le mani, i monti dell'isola, le spiagge, le vie di campagna e le navi nel porto. Esultando il Re barbaro balzò giù da cavallo e si gettò in acqua, sicuro di poter raggiungere l'isola con due bracciate, ma l'incanto si ruppe e il Re affogò miseramente. Tutto infatti era un miraggio, un gioco di luce della bella e sconosciuta donna, che altri non era se non la Fata Morgana. Il fenomeno si ripete ancora oggi nei giorni calmi e limpidi d'estate, nelle acque della riva di Reggio.





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romantico
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Posted - 06 March 2009 :  15:10:34  Vedi Profilo Send romantico a Private Message  Rispondi quotando
L'incantato del presepe

In paese le feste di Natale procuravano un’arcana quiete nell’anima; in ogni casa si contavano con ansia i giorni che mancavano alla Notte Santa. In quella del piccolo Leo tornava da lontano il padre, ad allietare la festa con la sua presenza e a costruire, come tutti gli anni, il presepe per il figliolo. Tornava dalla Svizzera, dove il freddo era pungente, ma il cielo era pieno di stelle, come le città piene di luci. In poco tempo il presepe era pronto e, come sempre, Maria discendeva dall’alto e riprendeva il suo posto accanto al Bambino Gesù; dall’altra parte c’era, inginocchiato e appoggiato al suo bastone da viaggio, san Giuseppe, assorto nel grande mistero. Leo vedeva nel suo presepe tornare i re Magi dall’Oriente, gli angeli che cantavano, i pastori con le zampogne e tanta altra gente davanti alla grotta, una folla che offriva doni al Redentore.

Sembrava un vero paese: Leo si fermava a guardare tutte quelle figurine e gli angeli, che danzavano felici come bambini leggeri ad inseguire per i campi un aquilone. Anche in quello, come in tutti i presepi, c’era la figurina dell’incantato. L’incantato era un povero infelice, che non aveva nulla e nulla portava al Bambinello. S’era fermato accanto alla grotta, non si muoveva e non faceva niente: stava lì a braccia aperte, a bocca spalancata, a guardare estasiato. Intorno, un affollarsi di pastori offerenti e Gesù che sorrideva sulla paglia; mentre, in ogni dove, la gente era diventata buona come ogni anno, perché era Natale; i poveri, però, erano rimasti ancora poveri e mentre Gesù nasceva migliaia di bambini morivano per fame. Dopo le feste il padre di Leo, disfatto il presepe, era tornato in terra straniera per fittare ancora le proprie braccia per un tozzo di pane. Il ragazzo, rimasto con la madre, era riuscito a trafugare da quel presepe la fugurina dell’incantato, nascondendola accanto al letto. Prima di pigliar sonno ogni sera la rimirava, la interrogava e l’incantato restava sempre muto a fissarlo con le braccia aperte, gli occhi fissi e la bocca spalancata. Ma una notte un lampo attraversò la finestra, poi un tuono spaurì Leo che si mise a tremare. La mamma, stanca per le fatiche del giorno, non avvertì nulla; il piccolo aveva tra le mani la figurina dell’incantato e lo sentì balbettare qualcosa: le braccia e gli occhi acquistarono movimento. L’incantato, per miracolo, cominciò a raccontare le storie che non aveva mai voluto raccontare a nessuno, lui che aveva capito tutto, che conosceva il miracolo della nascita del Redentore. Gli parlò del presepe, della storia dei pastori e dei macellai, degli arrotini e dei fornai, dei pescivendoli, e delle donne che, con una brocca in testa, andavano al pozzo per attingere acqua. Gli raccontò delle case con dietro le palme e delle città con le bianche cupole; gli parlò delle fatiche degli uomini, perché i ragazzi oggi non conoscono nulla delle culture contadine, nulla dei lavori antichi, nulla delle fiabe. Gli parlò di Gesù che nacque in una stalla, degli animali che lo adoravano prima degli uomini. Leo lo ascoltava incantato: gli occhi fissi, la bocca spalancata e le braccia aperte, come la figurina del suo presepe. L’incantato gli raccontò, come nessuno seppe mai raccontare, di quel Dio che si era adagiato in una mangiatoia sotto carne di un bimbo, nudo e povero come tutti i bambini della terra. Gli parlò di occhi che non guardano al mondo dei senza pane, dei senza speranza, dei senza tetto e dei senza amore. Gli parlò di quel Bambino che fra gli uomini cercò i semplici, e tra i semplici i fanciulli. Leo incrociò le braccia sul petto e si addormentò dolcemente. La figurina dell’incantato restò sul comodino, di nuovo muto, la bocca spalancata e le braccia aperte; forse felice di aver raccontato a un bambino ciò che non volle mai raccontare a nessuno in duemila anni di storia.



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Testo di Achille Curcio



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romantico
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Posted - 06 March 2009 :  15:13:03  Vedi Profilo Send romantico a Private Message  Rispondi quotando
La leggenda del Morzello

Molti, ma molti anni, fa viveva a Catanzaro una giovane donna di nome Chicchina; era nata in un abituro arredato di miseria, ma era cresciuta bella quasi per vendicarsi della stessa povertà, che l’aveva mal nutrita per anni. Non aveva incontrato un principe azzurro, come la fortunata Cenerentola: aveva trovato un giovane marito, che soltanto saltuariamente lavorava da quando in città avevano chiuso i telai che producevano antichi damaschi. La giovane moglie lo aiutava allora a raccogliere centinaia di sacchi di foglie di gelso, che servivano per nutrire i bachi da seta che ogni famiglia allevava per il fabbisogno delle filande. Avevano trovato casa nel rione Tùvulu, dal nome dell’antico burrone.

L’abitazione era costituita da un solo vano a piano terra, con una sola finestra; in esso c’era un letto matrimoniale con sopra l’immagine della Madonna, messa lì ad alimentare la fede e la speranza della giovane coppia. Era quello il quartiere dei poveri, ma di quei poveri che vestivano e mangiavano da poveri, e i bambini avevano il pallore dei poveri e i piedi nudi, come tutti i poveri del mondo. Lì c’era, e c’è ancora, la fontana di Tuvuleddhu. In quel punto sorgeva un agglomerato di pagliai, capanne a forma conica con scheletro di pali e intessitura di frasche e canne. D’estate erano utilizzati per la vendita dei fichidindia, resi freschi dall’acqua di quella sorgente; i Catanzaresi attraversavano la città e trovavano in quel luogo benefico sollievo alla calura. Poi un giorno il marito si allontanò da casa per trovare altrove lavoro; lo sposò, però, la morte che gli approntò un letto di terra che reggeva un verde cipresso. Chicchina rimase vedova, vestita con neri stracci, come vestono i poveri; si ritrovò con due figli da sfamare con erbe spontanee, cicorie, cardi e borragini, e qualche tozzo di pane che la provvidenza le procurava, perché nelle preghiere aveva sempre richiesto quel pane quotidiano che Dio sa dare. Quel tugurio, senza il suo uomo, ora le offriva freddo e fame; e la fame, impietosa, aveva bussato alla sua porta in compagnia della morte. In quell’abituro, nero come la notte, non entrava neppure un pallido raggio di sole, e sui vetri appannati dell’unica finestra la pioggia cadendo accompagnava la fine del giorno. Ora la sera per Chicchina era fredda come il ghiaccio, saziava la sua anima affamata col pane della preghiera; stava ad aspettare un passo che non tornava in quella casa, o il rumore di una porta che non si apriva. Sui muri, intanto, la muffa aveva dipinto volti di orchi e megere, bocche squartate dal continuo sbadigliare: immagini di terrore e smarrimento. Mancava poco al Natale e Chicchina, come altre volte, fu chiamata a ripulire il grande cortile, dove venivano macellati gli animali da carne per i bisogni dei Catanzaresi. Portate via le bestie scuoiate e sezionate, rimanevano ammucchiate in un angolo le pelli, che un addetto recapitava alla conceria. Alla donna toccava ripulire lo spiazzo colorato di sangue; poi in una grande cesta raccoglieva le frattaglie scartate, quelle non idonee alla vendita: tutte le budella, dall’intestino crasso a quello cieco, fino al retto. Era sua incombenza trasportarle nella discarica della Fiumarella, ma quella volta con quel carico sostò sull’uscio della sua stamberga. Si liberò dal peso della cesta per bere un sorso d’acqua; si lasciò andare sul gradino di casa per riprendere fiato; diede uno sguardo ai ragazzi, che riposavano ancora e che, a sera, avrebbero seguito, per le strade della città, le zampogne che suonavano la novena di Natale. Chicchina guardò la cesta colma di frattaglie: “Perché - si domandò - i ricchi mangiano la carne e rifiutano soltanto le parti di ciò che sta dentro le bestie? Forse per il contenuto che le budella ancora custodiscono, e devono essere sepolte nella discarica tra le immondizie…?”



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Testo di Achille Curcio



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romantico
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Posted - 06 March 2009 :  15:16:01  Vedi Profilo Send romantico a Private Message  Rispondi quotando
La Fata dei Campi
C’era una volta… ma forse c’è ancora, sotto altre spoglie, una bellissima giovane che girava attraverso le nostre contrade. Nessuno sapeva da dove venisse senza mai farsi annunciare. Era presente in ogni paese, nei villaggi di montagna o nelle borgate di campagna, sui campi quando il grano era biondo e maturo e appariva come un tratto di mare giallo, che aveva onde di luce. Era presente quando le ragazze cantavano felici nel tempo della vendemmia; o quando la neve copriva di bianco la terra, e gli alberi e le case apparivano trasformati in zucchero filato. I vecchi contadini ed anche mia nonna, che contadina non era, la chiamavano Fata dei Campi. Alcune volte appariva inghirlandata, con i capelli inanellati e sciolti sulle spalle in una cascata d’oro.

Aveva un vestito di candida neve, il manto celeste trapunto di stelle, le scarpine di seta verde: sembrava una creatura discesa dal cielo. Altre volte appariva sotto le spoglie di giovane guerriero: la sua corazza, sfolgorante di luce, aveva maglie che tintinnavano ad ogni movimento; altre volte assumeva fattezze ed abbigliamenti bizzarri e originali. Ognuno sperava incontrarla, pensando quanto era prodiga nel dispensare grazie. La sognavano i bambini nella quiete del loro riposo; l’invocavano le mamme, intente a cullare i piccoli, rendendola protagonista nelle ninne nanne, cantate come una preghiera. La Fata dei Campi si prestava a curare i malati, a confortare gli afflitti che vivevano le ore del giorno e della notte nel dolore; sosteneva e assisteva gli uomini ingenui e pacifici. Molte volte, nelle sembianze di valoroso guerriero, umiliava i superbi; altre volte, esaltava le creature mansuete e spaurite. Anche se era rinomata come Fata dei Campi, colpiva con castighi e pene le persone insensibili verso le sofferenze altrui. Era desiderata e invocata da tutti come lo spirito del bene, ma concedeva la gioia della sua presenza divina soltanto agli innocenti, ai puri di cuore, ai giusti, ai quali elargiva i tesori delle sue grazie. I più vecchi narravano di sue apparizioni improvvise e di prodigi. Una sera, al chiaro di luna, una contadinella, semplice e pura come una colomba, stava sdraiata su di un cumulo di paglia nell’aia di un podere. Estasiata ascoltava il canto di un usignuolo, quando avvertì un sibilo e un fruscìo, e dagli sterpi della vicina boscaglia venne fuori un mostruoso serpente, con gli occhi di fuoco, che si diresse minaccioso contro di lei. La ragazza, atterrita, lanciò un grido e svenne. Nel riprendere i sensi, si trovò accanto una giovane vestita di bianco, bella come un arcangelo, sfavillante di luce divina: le accarezzava il viso e la confortava amorevolmente. Io sono la Fata dei Campi - le disse - e ti ho sottratta alle insidie del mostro. Sii prudente d’ora in poi; sii buona e abbi fede in me, nella mia protezione e nel mio aiuto. Montata in groppa a un focoso cavallo, sparì attraversando la fitta boscaglia per prestare soccorso ad altre creature bisognose. Da quel giorno il popolo ancora crede che la Fata dei Campi percorra benefica le nostre contrade, ma non la chiamano più col nome che usavano i vecchi pastori della Sila o i pescatori di Montauro. La Fata dei Campi ha ora altri nomi, più dolci, che hanno il suono familiare di materna presenza: Maria degli Angeli, Maria delle Grazie, Maria della Luce, Maria dell’Aiuto, Maria di Porto Salvo.




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Testo di Achille Curcio



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romantico
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Posted - 06 March 2009 :  15:22:32  Vedi Profilo Send romantico a Private Message  Rispondi quotando
Il Gymnasium, di Pierluigi Curcio

Kroton 524 a. c.

Selena splendeva alta nel cielo e le poche nubi non impedivano ai tenui riflessi di tuffarsi nel placido specchio d’acqua, la risacca era un dolce fruscio e copriva i passi furtivi degli uomini.
L’acropoli si stagliava su di un’alta collina a ridosso del mare dominando l’intero paesaggio, duro, selvaggio e di una bellezza da rubare la vista agli stessi dei.Vaste foreste si diramavano da questa su tutta la costa, a nord fino la stessa Taranto ed a sud oltre il tempio della dea fin la lontana Reggio: un cacciatore poco avvezzo alla zona avrebbe potuto vagare per giorni senza poter distinguere il giorno dalla notte.
Oh quanto era bella e potente la mia città. Alte mura ne lambivano i contorni girando a nord per il quartiere dei mercanti fin sulle alte colline estromettendo la città dei morti.



I guerrieri erano nudi e l’imbarcazione che li aveva condotti a terra, ora attendeva a pochi metri dalla riva che completassero la missione per cui erano stati pagati: distruggere il gymnasium, distruggere la fama con cui il mago, il saggio, l’incorruttibile Pitagora aveva offeso ed umiliato il nobile violento Cilone rifiutando la richiesta di affiliazione alla sua setta: i pitagorici.
Strisciarono nella sabbia, il loro obiettivo era stato edificato al di fuori delle mura cittadine nei pressi della spiaggia. Quivi gli adepti allenavano mente e corpo sotto l’occhio vigile del loro maestro.
Tauros, sgusciò dalla camerata silenzioso come la serpe che era e, giunto in prossimità del peristilio richiamò l’attenzione delle due guardie. Non vi fu scampo. I sei intrusi piombarono loro alle spalle trafiggendoli all’altezza del cuore. Non un gemito, non un lamento. Due uomini ne presero il posto. Non ci sarebbe stato più alcun cambio della guardia sino al mattino.

Leptis, si svegliò in preda all’ansia, la notte era calda e gli incubi non avevano smesso di tormentarlo, non ne aveva parlato con nessuno, non avrebbe potuto disturbare il maestro con sciocchezze del genere. Nel sogno era solo e camminava lungo gli alti colonnati della palestra, non vi erano affreschi né mosaici di alcun tipo, per non distrarre i discepoli dalle dure fatiche della mente e del corpo che Pitagora aveva imposto ad essi. Tutto risplendeva come ghiaccio ed accecava gli occhi: non poteva, non riusciva a guardare, poi, come dal nulla, una sensazione di calore alla base della gola.
Si era svegliato terrorizzato per la quarta notte di seguito e, madido di sudore era uscito silenziosamente dal dormitorio in cerca di un po’ di ristoro nella brezza della notte.
Percorse lo stesso colonnato del sogno con una certa inquietudine, voltando più volte il capo in cerca di un segnale di pericolo che giustificasse la sua ansia senza trovare risposte al timore che lo attanagliava. Le guardie vigilavano l’ingresso come sempre. Non aveva nulla da temere.
Entrato nel giardino si diresse con passo sicuro al piccolo pozzo sito nel suo centro ed ivi, gettato il secchio, prese a tirare adagio il recipiente. Tracannò una, due … tre lunghe sorsate dal mestolo e, gettata un’altra occhiata lungo i porticati, si preparò a rientrare nella camerata. Tratto un ampio respiro, riagganciò il secchio alla carrucola, l’aurora non avrebbe tardato a giungere. Sorpassata la quarta colonna da sinistra, una mano sbucò dalle ombre serrandogli con forza la bocca, mentre l’altra passava quasi con dolcezza con la lama stretta in pugno sulla gola di Leptis. Il ragazzo si accasciò in terra e gli occhi sbarrati e vitrei, oramai privi di vita, indicavano tutto il suo stupore.
Non avevano molto tempo, se qualcun altro si fosse svegliato avrebbe visto la lunga scia di sangue che conduceva al corpo del pitagorico nascosto tra le fronde in giardino. Erano in quattro e superato il lungo corridoio, nascondendosi di volta in volta dietro le colonne, oltrepassarono l’elaethesium (1)All’interno del giardino, nell’angolo sud ovest si aprivano le exedrae (2) e questa era la loro meta. Lavorarono a turno sagacemente e duramente, senza far rumore riuscirono a recidere diagonalmente una delle colonne portanti della struttura, ci avrebbe pensato Tauros a dare il colpo finale al momento giusto e per Pitagora e la sua scuola sarebbe stato l’inizio della fine.

Agathos, fu lui a trovare il corpo di Leptis e subito il capo scattò in alto ed … il grido gli morì in gola. Non c’erano guardie all’entrata. Il panico corse come fuoco nelle vene e liberatorio l’urlo disperato infranse l’aere del caldo mattino spaventando e spingendo alla fuga alcuni gabbiani in alto, sempre più in alto, lontano sul mare.
Gli uomini corsero fuori dalle celle nudi e solo i pochi che avevano finito le abluzioni mattutine indossavano chi una corta tunica bianca, chi il chitone. Un uomo tra tutti prese istantaneamente il comando: era alto, tremendamente alto ed i muscoli parevano guizzare fuori dalla pelle e schizzar via: un vero titano. Aveva i capelli ricci e folti ed una barba incolta gli serpeggiava sul viso … più volte aveva comandato gli eserciti in battaglia. Più volte ne aveva decretato la vittoria con forza e carisma innati.
Inviò coloro a lui più fedeli a setacciare ogni angolo della scuola in cerca di intrusi … ma senza troppa convinzione. Chiunque fosse entrato aveva già ottenuto quel che cercava. Un brivido gli corse lungo la schiena ed il pensiero si rivolse al maestro … corse affannosamente ingombrato com’era dal lungo chitone verso i suoi alloggi, spostando freneticamente tutti coloro che tentavano di fermarlo spaventati ed in cerca di notizie rassicuranti “ Chi aveva osato?” … “ Chi mai aveva potuto?” “… e dov’era il maestro adesso?” “Perché non era tra loro?” … Stava per salire i gradini che lo avrebbero condotto alle stanze del precettore quando questi, apparso sulla sommità del pianerottolo, lo bloccò con un cenno della mano.
“ Riunisci tutti nell’aula … ”
“ Maestro …”
“ Cosa cercavano?”
“ Non lo so .” Abbassò il capo
“ Non importa, lo scopriremo. Temo che la nostra curiosità non resterà a lungo insoddisfatta. Riunisci tutti nell’aula.”



(presa dalla rete)


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Posted - 06 March 2009 :  15:25:44  Vedi Profilo Send romantico a Private Message  Rispondi quotando
Donna Candia di Catanzaro

Quando le coste della Calabria erano saccheggiate dai pirati, vicino a Catanzaro approdò una nave saracena che però portava le insegne di Amalfi. E anche i pirati si erano travestiti, in modo tale da ingannare chiunque. La gente del posto corse a vedere e qualcuno chiese ai marinai di dov'erano. «Di Amalfi» rispose uno. «Siamo venuti a portarvi stoffe per le vostre donne e soprattutto per Donna Candia, che le apprezzerà più di tutte. Correte a Catanzaro e avvertitela.» Donna Candia, che era la più bella ragazza della Calabria, venne avvertita e andò a vedere le stoffe dei finti amalfitani.Ma una volta a bordo, mentre guardava e sceglieva, non si accorse che la nave era salpata e che il vento la portava sempre più lontano. Quando furono in mare aperto, però, si rese conto che l'avevano ingannata e rapita. Agitandole la scimitarra sotto il naso, il capitano le disse che lei era destinata all'harem del sultano, perciò tanto valeva rassegnarsi.

«Mio padre è ricco, e se chiederai un riscatto ti pagherà bene» disse allora Donna Candia, e il capitano non rispose di no. Cosi, appena passò una nave cristiana, accostarono e la ragazza raccomandò ai marinai di far sapere a suo padre che per riscattarla ci volevano tre leoni, tre falchi e tre colonne d'oro. Quando lo seppe, suo padre si disperò: era un riscatto impossibile, non poteva pagarlo. Allora Donna Candia mandò a dire a suo marito di pagare un riscatto cosi e cosi, ma nemmeno lui seppe procurarselo. E finalmente vennero avvertiti i suoi tre fratelli, che non ci stettero a pensare su: fecero coprire d'oro le loro spade e poi, con una barca velocissima, raggiunsero la nave pirata. Salirono a bordo e dissero al capitano: «Siamo venuti a riscattare nostra sorella! Volevi tre leoni? Eccoci qui, siamo noi e te ne accorgerai quando ti sbraneremo. Volevi tre falchi? Siamo sempre noi, che voliamo sul mare per salvare Donna Candia. E quanto alle tre colonne d'oro, eccole.» Gli mostrarono le tre spade, e un momento dopo stavano infilzando qua e là sbudellando , finché tutti gli uomini dell'equipaggio non furono morti stecchiti. Poi riportarono Donna Candia a Catanzaro, e la storia è finita.




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romantico
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Posted - 06 March 2009 :  15:29:40  Vedi Profilo Send romantico a Private Message  Rispondi quotando
Leggenda sul Castello normanno di Stilo

Nel 982 il califfo Ibrahim Ibn Ahmad partì dalla Sicilia alla conquista della Calabria e di tutta l'Italia contro i bizantini. Quando arrivò di fronte al castello normanno inizò a cingerlo d'assedio. Tutti quelli che abitavano nel paese furono rifugiati nel castello per ordine del granduca che vi abitava.

Il castello era praticamente inaccessibile. Vi era un unica via, dove i soldati dovevano per forza passare uno a uno. Fu così che il califfo decise di prendere il castello per la fame. Al quarto giorno le provviste stavano ormai finendo, e il granduca decise di buttare sul campo nemico tutto il latte delle donne che avevano avuto da poco figli sotto forma di ricotta. Gli arabi pensarono che se usavano pure il cibo come proiettili, l'assedio si sarebbe protratto a lungo, e che le scorte di cibo del castello fossero di una notevole entità. Per di più il califfo provò questa ricotta che agli arabi era sconosciuta con spiacevoli conseguenze. Egli, infatti, si ammalò di dissenteria, e la situazione si aggravò specialmente dopo le cure dei medici arabi con decotti di salvia. Così successivamente fu decisa la ritirata dell'esercito musulmano per volere del nipote Gabir e il castello si salvò.




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