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Discussione di partenza
romantico Inviata - 21 December 2008 : 20:56:53

La sorgente magica

- Leggenda del Trentino Alto Adige -




C'era una volta in un solitario paese del Trentino, un bellissimo cervo. Nessuno sapeva dire quanti anni avesse. C'erano mamme e papa' che ricordavano di averlo visto gia' adulto quando loro erano bambini. In molti pensavano che questo splendido esemplare fosse immortale. Cacciatori senza pieta' raccontavano di averlo inseguito piu' volte nel bosco e molti di loro affermavano di averlo colpito, ma nessuno era riuscito a catturarlo. Il nobile animale spariva senza lasciare traccia e ricompariva dopo qualche giorno,misteriosamente illeso. I cacciatori, ma non solo loro,non sapevano spiegare questa strana caratteristica. Un giorno, durante una battuta di caccia, alcuni uomini videro il cervo e i tiratori piu' bravi gli spararono. Certi di averlo colpito, cominciarono a correre dietro all'animale che si inoltrava sempre piu' nella foresta. I cacciatori arrivarono a una radura e videro alcune macchie di sangue in terra. Gli uomini si aspettavano di vedere l'animale morto, ma il cervo si stava bagnando in una sorgente di acqua termale, per farla guarire. Da allora, in quella zona molte persone hanno goduto degli effetti benefici delle acque della salute scoperte dal cervo misterioso.






I Monti Pallidi
Leggenda dell'Alto Adige




Forse non tutti sanno che le Dolomiti vengono chiamate anche Monti Pallidi a seguito di un prodigioso incantesimo avvenuto ai tempi dell'antico Regno delle Dolomiti, quando la roccia delle montagne aveva lo stesso colore delle Alpi. Tale regno era ricoperto di prati fioriti, boschi lussureggianti e laghi incantati. Ovunque si poteva respirare aria di felicità e armonia meno che nel castello reale.


Bisogna infatti sapere che il figlio del re aveva sposato la principessa della luna, ma un triste destino condannava i due giovani amanti a vivere eternamente separati. L'uno non poteva sopportare l'intensa luce della luna che l'avrebbe reso cieco, l'altra sfuggiva la vista delle cupe montagne e degli ombrosi boschi che le causavano una malinconia talmente profonda da farla ammalare gravemente.
Ormai ogni gioia sembrava svanita e solamente le oscure foreste facevano da solitario rifugio al povero principe. Ma si sa, però, che proprio le ombrose selve sono luoghi popolati da curiosi personaggi, ricchi di poteri sorprendenti e capaci di rovesciare inaspettatamente il corso degli eventi. Ed è così che un giorno, nel suo disperato vagare, il principe si imbattè nel re dei Salvani, un piccolo e simpatico gnomo in cerca di una terra per il suo popolo. Dopo aver ascoltato la triste storia del giovane sposo, il re dei Salvani gli propose, in cambio del permesso di abitare con la propria gente questi boschi, di rendere lucenti le montagne del suo regno. Siglato il patto, gli gnomi tessero per un'intera notte la luce della luna e ne ricoprirono tutte le rocce. La principessa potè così tornare sulla terra per vivere felicemente assieme al suo sposo e le Dolomiti presero il nome di Monti Pallidi.

Presa dal web





Ultime risposte: 7  (ordine cronologico inverso)
romantico Inviata - 06 March 2009 : 15:48:13
La leggenda del Re Niliu
Grotta di Re Niliu
Un mitico Re Niliu, al cui nome si richiama una grotta dritta, a cunicolo, che dal centro del crinale si perde nelle viscere del monte Tiriolo, è il protagonista di una leggenda nella quale sono coinvolti una famiglia regale, una fanciulla bella ma povera, l'ingenuo servo e un gallo.
Niliu, rampollo principesco, s'invaghisce di una giovane popolana, con la quale compie una fuga d'amore perché i propositi di coronare felicemente il loro sogno, vengono contrastati dalla madre.

Sul giovane in fuga pesa la maledizione dei genitori: sciogliersi come cera colpito dai raggi del sole.
Niliu può incontrare la moglie e il figlio nato dall'unione con la fanciulla, soltanto di notte nel lungo cunicolo naturale che dalla cima del monte arriva fin sul mare, nei pressi della foce del Corace, dove nel frattempo aveva trovato riparo il resto della famiglia. Il giovane viene avvertito del sorgere del sole dal canto del gallo.
La bella storia d'amore tra il principe e la popolana arricchita dal sorriso di un fanciullo rubicondo, va avanti per parecchio rtempo e fino ….. fino a quando le fate hanno deciso di non far cantare il gallo.
Nella fatidica alba, sorpreso dai raggi del sole, Niliu in preda alla disperazione, al servo fedele che chiede conto del lascito delle ricchezze, predice di lasciare tutto al diavolo, il quale a sua volta, diviso il denaro in tre gruzzoli (d'oro, d'argentoo e di bronzo) lo nasconde nelle viscere del monte. L'incantesimo, narra la leggenda in conclusione, si può solo rompere con il ricorso a pratica diabolica.
Si riporta di seguito il "Canto do Re Niliu" (brano in dialetto tiriolese tratto dal testo di una rappresentazione teatrale scritto dagli alunni e dai docenti della 1a B e 1a C - anno scolastico 1987/88 - della scuola media statale "V. De Filippis" di Tiriolo) dove si immagina che Demodoco (cantore della corte di Alcinoo) narra tale leggenda per allietare una delle serate trascorse da Ulisse nella terra di Tiriolo. (in corsivo è riportata la voce del coro).



Alcune frasi in Dialetto
Chista è a storia do Re Niliu
chi ppe amure e na cotrara
allu sule si squagghiau cumu la cira
Na vota c'era intra na reggia
allu munte e Tiriuelu
nu Re e na regina
chi avianu nu figghiu sulu

Smaledittu mu si, si iddra ti pigghi
cumu a cira mu ti squagghi
quandu u sule ti cogghe.
E Niliu nummu u sule l'adducia
a na cambera scura si stapia
alla marina a cotrara sinde jiu
e ddra nu picciuliddu partoriu.

Smaledittu mu si, si iddra ti pigghi
cumu a cira mu ti squagghi
quandu u sule ti cogghie.
Ogne vota cchi u picciriddhu jia e trovava
sta ninna nanna Niliu cce cantava

Duermi, duermi gran ninnulu mio
ca è venuta lu tata tue
mu ti porta lu vatticundeu
E si mai li gaddhi canteranu
io sempre stapera ccu tia
duermi duermi gran ninnulu mio.
E ninfe mu ce fannu nu piacire
nu juernu nu gaddhu nun ce ficeru sentire
tutti li gaddhi ficeru ammutare
pemmu ccu u figghiu cchiuu asssai potia restare.




romantico Inviata - 06 March 2009 : 15:32:56
Scilla e Cariddi
"Odisseo di fronte a Scilla e Cariddi"
Johann Heinrich Füssli (1794-1796)
Cariddi, nella mitologia greca era un mostro marino, figlia di Poseidone e Gea, che formava un vortice marino, capace di inghiottire le navi di passaggio. La leggenda la situa presso uno dei due lati dello stretto di Messina, di fronte all'antro del mostro Scilla. Le navi che imboccavano lo stretto erano costrette a passare vicino ad uno dei due mostri. In quel tratto di mare i vortici sono causati dall'incontro delle correnti marine, ma non sono di entità rilevanti. L'espressione «essere tra Scilla e Cariddi», indica il rischio di sfuggire ad un pericolo per correrne un altro. Secondo il mito, gli Argonauti riuscirono a scampare al pericolo, rappresentato dai due mostri, perché guidati da Teti madre di Achille, una delle Nereidi.Cariddi è menzionata anche nel canto XII dell'Odissea di Omero, in cui si narra che Ulisse preferì affrontare Scilla, per paura di perdere la nave passando vicino al gorgo.

Scilla è una figura della mitologia greca, era un mostro marino. La leggenda vuole che dimori sotto il promontorio di Scilla, da cui uscirebbe di tanto in tanto scatenando spaventose tempeste e terrorizzando i naviganti che possono solo sperare nell'intervento di Glauco, trasformatosi in un tritone marino per amore della ninfa, che emerge a placare i venti ogni volta che infuria la tempesta. Nell'Odissea, Omero la descrive come un'immortale, figlia della dea Crateis. La indica come un mostro con sei teste e dodici gambe, che strappava i marinai dalle loro navi, quando, per evitare i vortici di Cariddi, si avvicinavano alla sua tana. Altre tradizioni la indicano come figlia di Forci e di Ecate. La fanciulla era amata da Poseidone, Anfitrite ne era gelosa ed avvelenò l'acqua nella quale si bagnava e la trasformò in mostro. Scilla viene talvolta indicata come la personificazione della piovra che vive nelle acque del Mar Mediterraneo.




romantico Inviata - 06 March 2009 : 15:29:40
Leggenda sul Castello normanno di Stilo

Nel 982 il califfo Ibrahim Ibn Ahmad partì dalla Sicilia alla conquista della Calabria e di tutta l'Italia contro i bizantini. Quando arrivò di fronte al castello normanno inizò a cingerlo d'assedio. Tutti quelli che abitavano nel paese furono rifugiati nel castello per ordine del granduca che vi abitava.

Il castello era praticamente inaccessibile. Vi era un unica via, dove i soldati dovevano per forza passare uno a uno. Fu così che il califfo decise di prendere il castello per la fame. Al quarto giorno le provviste stavano ormai finendo, e il granduca decise di buttare sul campo nemico tutto il latte delle donne che avevano avuto da poco figli sotto forma di ricotta. Gli arabi pensarono che se usavano pure il cibo come proiettili, l'assedio si sarebbe protratto a lungo, e che le scorte di cibo del castello fossero di una notevole entità. Per di più il califfo provò questa ricotta che agli arabi era sconosciuta con spiacevoli conseguenze. Egli, infatti, si ammalò di dissenteria, e la situazione si aggravò specialmente dopo le cure dei medici arabi con decotti di salvia. Così successivamente fu decisa la ritirata dell'esercito musulmano per volere del nipote Gabir e il castello si salvò.




romantico Inviata - 06 March 2009 : 15:25:44
Donna Candia di Catanzaro

Quando le coste della Calabria erano saccheggiate dai pirati, vicino a Catanzaro approdò una nave saracena che però portava le insegne di Amalfi. E anche i pirati si erano travestiti, in modo tale da ingannare chiunque. La gente del posto corse a vedere e qualcuno chiese ai marinai di dov'erano. «Di Amalfi» rispose uno. «Siamo venuti a portarvi stoffe per le vostre donne e soprattutto per Donna Candia, che le apprezzerà più di tutte. Correte a Catanzaro e avvertitela.» Donna Candia, che era la più bella ragazza della Calabria, venne avvertita e andò a vedere le stoffe dei finti amalfitani.Ma una volta a bordo, mentre guardava e sceglieva, non si accorse che la nave era salpata e che il vento la portava sempre più lontano. Quando furono in mare aperto, però, si rese conto che l'avevano ingannata e rapita. Agitandole la scimitarra sotto il naso, il capitano le disse che lei era destinata all'harem del sultano, perciò tanto valeva rassegnarsi.

«Mio padre è ricco, e se chiederai un riscatto ti pagherà bene» disse allora Donna Candia, e il capitano non rispose di no. Cosi, appena passò una nave cristiana, accostarono e la ragazza raccomandò ai marinai di far sapere a suo padre che per riscattarla ci volevano tre leoni, tre falchi e tre colonne d'oro. Quando lo seppe, suo padre si disperò: era un riscatto impossibile, non poteva pagarlo. Allora Donna Candia mandò a dire a suo marito di pagare un riscatto cosi e cosi, ma nemmeno lui seppe procurarselo. E finalmente vennero avvertiti i suoi tre fratelli, che non ci stettero a pensare su: fecero coprire d'oro le loro spade e poi, con una barca velocissima, raggiunsero la nave pirata. Salirono a bordo e dissero al capitano: «Siamo venuti a riscattare nostra sorella! Volevi tre leoni? Eccoci qui, siamo noi e te ne accorgerai quando ti sbraneremo. Volevi tre falchi? Siamo sempre noi, che voliamo sul mare per salvare Donna Candia. E quanto alle tre colonne d'oro, eccole.» Gli mostrarono le tre spade, e un momento dopo stavano infilzando qua e là sbudellando , finché tutti gli uomini dell'equipaggio non furono morti stecchiti. Poi riportarono Donna Candia a Catanzaro, e la storia è finita.




romantico Inviata - 06 March 2009 : 15:22:32
Il Gymnasium, di Pierluigi Curcio

Kroton 524 a. c.

Selena splendeva alta nel cielo e le poche nubi non impedivano ai tenui riflessi di tuffarsi nel placido specchio d’acqua, la risacca era un dolce fruscio e copriva i passi furtivi degli uomini.
L’acropoli si stagliava su di un’alta collina a ridosso del mare dominando l’intero paesaggio, duro, selvaggio e di una bellezza da rubare la vista agli stessi dei.Vaste foreste si diramavano da questa su tutta la costa, a nord fino la stessa Taranto ed a sud oltre il tempio della dea fin la lontana Reggio: un cacciatore poco avvezzo alla zona avrebbe potuto vagare per giorni senza poter distinguere il giorno dalla notte.
Oh quanto era bella e potente la mia città. Alte mura ne lambivano i contorni girando a nord per il quartiere dei mercanti fin sulle alte colline estromettendo la città dei morti.



I guerrieri erano nudi e l’imbarcazione che li aveva condotti a terra, ora attendeva a pochi metri dalla riva che completassero la missione per cui erano stati pagati: distruggere il gymnasium, distruggere la fama con cui il mago, il saggio, l’incorruttibile Pitagora aveva offeso ed umiliato il nobile violento Cilone rifiutando la richiesta di affiliazione alla sua setta: i pitagorici.
Strisciarono nella sabbia, il loro obiettivo era stato edificato al di fuori delle mura cittadine nei pressi della spiaggia. Quivi gli adepti allenavano mente e corpo sotto l’occhio vigile del loro maestro.
Tauros, sgusciò dalla camerata silenzioso come la serpe che era e, giunto in prossimità del peristilio richiamò l’attenzione delle due guardie. Non vi fu scampo. I sei intrusi piombarono loro alle spalle trafiggendoli all’altezza del cuore. Non un gemito, non un lamento. Due uomini ne presero il posto. Non ci sarebbe stato più alcun cambio della guardia sino al mattino.

Leptis, si svegliò in preda all’ansia, la notte era calda e gli incubi non avevano smesso di tormentarlo, non ne aveva parlato con nessuno, non avrebbe potuto disturbare il maestro con sciocchezze del genere. Nel sogno era solo e camminava lungo gli alti colonnati della palestra, non vi erano affreschi né mosaici di alcun tipo, per non distrarre i discepoli dalle dure fatiche della mente e del corpo che Pitagora aveva imposto ad essi. Tutto risplendeva come ghiaccio ed accecava gli occhi: non poteva, non riusciva a guardare, poi, come dal nulla, una sensazione di calore alla base della gola.
Si era svegliato terrorizzato per la quarta notte di seguito e, madido di sudore era uscito silenziosamente dal dormitorio in cerca di un po’ di ristoro nella brezza della notte.
Percorse lo stesso colonnato del sogno con una certa inquietudine, voltando più volte il capo in cerca di un segnale di pericolo che giustificasse la sua ansia senza trovare risposte al timore che lo attanagliava. Le guardie vigilavano l’ingresso come sempre. Non aveva nulla da temere.
Entrato nel giardino si diresse con passo sicuro al piccolo pozzo sito nel suo centro ed ivi, gettato il secchio, prese a tirare adagio il recipiente. Tracannò una, due … tre lunghe sorsate dal mestolo e, gettata un’altra occhiata lungo i porticati, si preparò a rientrare nella camerata. Tratto un ampio respiro, riagganciò il secchio alla carrucola, l’aurora non avrebbe tardato a giungere. Sorpassata la quarta colonna da sinistra, una mano sbucò dalle ombre serrandogli con forza la bocca, mentre l’altra passava quasi con dolcezza con la lama stretta in pugno sulla gola di Leptis. Il ragazzo si accasciò in terra e gli occhi sbarrati e vitrei, oramai privi di vita, indicavano tutto il suo stupore.
Non avevano molto tempo, se qualcun altro si fosse svegliato avrebbe visto la lunga scia di sangue che conduceva al corpo del pitagorico nascosto tra le fronde in giardino. Erano in quattro e superato il lungo corridoio, nascondendosi di volta in volta dietro le colonne, oltrepassarono l’elaethesium (1)All’interno del giardino, nell’angolo sud ovest si aprivano le exedrae (2) e questa era la loro meta. Lavorarono a turno sagacemente e duramente, senza far rumore riuscirono a recidere diagonalmente una delle colonne portanti della struttura, ci avrebbe pensato Tauros a dare il colpo finale al momento giusto e per Pitagora e la sua scuola sarebbe stato l’inizio della fine.

Agathos, fu lui a trovare il corpo di Leptis e subito il capo scattò in alto ed … il grido gli morì in gola. Non c’erano guardie all’entrata. Il panico corse come fuoco nelle vene e liberatorio l’urlo disperato infranse l’aere del caldo mattino spaventando e spingendo alla fuga alcuni gabbiani in alto, sempre più in alto, lontano sul mare.
Gli uomini corsero fuori dalle celle nudi e solo i pochi che avevano finito le abluzioni mattutine indossavano chi una corta tunica bianca, chi il chitone. Un uomo tra tutti prese istantaneamente il comando: era alto, tremendamente alto ed i muscoli parevano guizzare fuori dalla pelle e schizzar via: un vero titano. Aveva i capelli ricci e folti ed una barba incolta gli serpeggiava sul viso … più volte aveva comandato gli eserciti in battaglia. Più volte ne aveva decretato la vittoria con forza e carisma innati.
Inviò coloro a lui più fedeli a setacciare ogni angolo della scuola in cerca di intrusi … ma senza troppa convinzione. Chiunque fosse entrato aveva già ottenuto quel che cercava. Un brivido gli corse lungo la schiena ed il pensiero si rivolse al maestro … corse affannosamente ingombrato com’era dal lungo chitone verso i suoi alloggi, spostando freneticamente tutti coloro che tentavano di fermarlo spaventati ed in cerca di notizie rassicuranti “ Chi aveva osato?” … “ Chi mai aveva potuto?” “… e dov’era il maestro adesso?” “Perché non era tra loro?” … Stava per salire i gradini che lo avrebbero condotto alle stanze del precettore quando questi, apparso sulla sommità del pianerottolo, lo bloccò con un cenno della mano.
“ Riunisci tutti nell’aula … ”
“ Maestro …”
“ Cosa cercavano?”
“ Non lo so .” Abbassò il capo
“ Non importa, lo scopriremo. Temo che la nostra curiosità non resterà a lungo insoddisfatta. Riunisci tutti nell’aula.”



(presa dalla rete)


romantico Inviata - 06 March 2009 : 15:16:01
La Fata dei Campi
C’era una volta… ma forse c’è ancora, sotto altre spoglie, una bellissima giovane che girava attraverso le nostre contrade. Nessuno sapeva da dove venisse senza mai farsi annunciare. Era presente in ogni paese, nei villaggi di montagna o nelle borgate di campagna, sui campi quando il grano era biondo e maturo e appariva come un tratto di mare giallo, che aveva onde di luce. Era presente quando le ragazze cantavano felici nel tempo della vendemmia; o quando la neve copriva di bianco la terra, e gli alberi e le case apparivano trasformati in zucchero filato. I vecchi contadini ed anche mia nonna, che contadina non era, la chiamavano Fata dei Campi. Alcune volte appariva inghirlandata, con i capelli inanellati e sciolti sulle spalle in una cascata d’oro.

Aveva un vestito di candida neve, il manto celeste trapunto di stelle, le scarpine di seta verde: sembrava una creatura discesa dal cielo. Altre volte appariva sotto le spoglie di giovane guerriero: la sua corazza, sfolgorante di luce, aveva maglie che tintinnavano ad ogni movimento; altre volte assumeva fattezze ed abbigliamenti bizzarri e originali. Ognuno sperava incontrarla, pensando quanto era prodiga nel dispensare grazie. La sognavano i bambini nella quiete del loro riposo; l’invocavano le mamme, intente a cullare i piccoli, rendendola protagonista nelle ninne nanne, cantate come una preghiera. La Fata dei Campi si prestava a curare i malati, a confortare gli afflitti che vivevano le ore del giorno e della notte nel dolore; sosteneva e assisteva gli uomini ingenui e pacifici. Molte volte, nelle sembianze di valoroso guerriero, umiliava i superbi; altre volte, esaltava le creature mansuete e spaurite. Anche se era rinomata come Fata dei Campi, colpiva con castighi e pene le persone insensibili verso le sofferenze altrui. Era desiderata e invocata da tutti come lo spirito del bene, ma concedeva la gioia della sua presenza divina soltanto agli innocenti, ai puri di cuore, ai giusti, ai quali elargiva i tesori delle sue grazie. I più vecchi narravano di sue apparizioni improvvise e di prodigi. Una sera, al chiaro di luna, una contadinella, semplice e pura come una colomba, stava sdraiata su di un cumulo di paglia nell’aia di un podere. Estasiata ascoltava il canto di un usignuolo, quando avvertì un sibilo e un fruscìo, e dagli sterpi della vicina boscaglia venne fuori un mostruoso serpente, con gli occhi di fuoco, che si diresse minaccioso contro di lei. La ragazza, atterrita, lanciò un grido e svenne. Nel riprendere i sensi, si trovò accanto una giovane vestita di bianco, bella come un arcangelo, sfavillante di luce divina: le accarezzava il viso e la confortava amorevolmente. Io sono la Fata dei Campi - le disse - e ti ho sottratta alle insidie del mostro. Sii prudente d’ora in poi; sii buona e abbi fede in me, nella mia protezione e nel mio aiuto. Montata in groppa a un focoso cavallo, sparì attraversando la fitta boscaglia per prestare soccorso ad altre creature bisognose. Da quel giorno il popolo ancora crede che la Fata dei Campi percorra benefica le nostre contrade, ma non la chiamano più col nome che usavano i vecchi pastori della Sila o i pescatori di Montauro. La Fata dei Campi ha ora altri nomi, più dolci, che hanno il suono familiare di materna presenza: Maria degli Angeli, Maria delle Grazie, Maria della Luce, Maria dell’Aiuto, Maria di Porto Salvo.




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Testo di Achille Curcio



romantico Inviata - 06 March 2009 : 15:13:03
La leggenda del Morzello

Molti, ma molti anni, fa viveva a Catanzaro una giovane donna di nome Chicchina; era nata in un abituro arredato di miseria, ma era cresciuta bella quasi per vendicarsi della stessa povertà, che l’aveva mal nutrita per anni. Non aveva incontrato un principe azzurro, come la fortunata Cenerentola: aveva trovato un giovane marito, che soltanto saltuariamente lavorava da quando in città avevano chiuso i telai che producevano antichi damaschi. La giovane moglie lo aiutava allora a raccogliere centinaia di sacchi di foglie di gelso, che servivano per nutrire i bachi da seta che ogni famiglia allevava per il fabbisogno delle filande. Avevano trovato casa nel rione Tùvulu, dal nome dell’antico burrone.

L’abitazione era costituita da un solo vano a piano terra, con una sola finestra; in esso c’era un letto matrimoniale con sopra l’immagine della Madonna, messa lì ad alimentare la fede e la speranza della giovane coppia. Era quello il quartiere dei poveri, ma di quei poveri che vestivano e mangiavano da poveri, e i bambini avevano il pallore dei poveri e i piedi nudi, come tutti i poveri del mondo. Lì c’era, e c’è ancora, la fontana di Tuvuleddhu. In quel punto sorgeva un agglomerato di pagliai, capanne a forma conica con scheletro di pali e intessitura di frasche e canne. D’estate erano utilizzati per la vendita dei fichidindia, resi freschi dall’acqua di quella sorgente; i Catanzaresi attraversavano la città e trovavano in quel luogo benefico sollievo alla calura. Poi un giorno il marito si allontanò da casa per trovare altrove lavoro; lo sposò, però, la morte che gli approntò un letto di terra che reggeva un verde cipresso. Chicchina rimase vedova, vestita con neri stracci, come vestono i poveri; si ritrovò con due figli da sfamare con erbe spontanee, cicorie, cardi e borragini, e qualche tozzo di pane che la provvidenza le procurava, perché nelle preghiere aveva sempre richiesto quel pane quotidiano che Dio sa dare. Quel tugurio, senza il suo uomo, ora le offriva freddo e fame; e la fame, impietosa, aveva bussato alla sua porta in compagnia della morte. In quell’abituro, nero come la notte, non entrava neppure un pallido raggio di sole, e sui vetri appannati dell’unica finestra la pioggia cadendo accompagnava la fine del giorno. Ora la sera per Chicchina era fredda come il ghiaccio, saziava la sua anima affamata col pane della preghiera; stava ad aspettare un passo che non tornava in quella casa, o il rumore di una porta che non si apriva. Sui muri, intanto, la muffa aveva dipinto volti di orchi e megere, bocche squartate dal continuo sbadigliare: immagini di terrore e smarrimento. Mancava poco al Natale e Chicchina, come altre volte, fu chiamata a ripulire il grande cortile, dove venivano macellati gli animali da carne per i bisogni dei Catanzaresi. Portate via le bestie scuoiate e sezionate, rimanevano ammucchiate in un angolo le pelli, che un addetto recapitava alla conceria. Alla donna toccava ripulire lo spiazzo colorato di sangue; poi in una grande cesta raccoglieva le frattaglie scartate, quelle non idonee alla vendita: tutte le budella, dall’intestino crasso a quello cieco, fino al retto. Era sua incombenza trasportarle nella discarica della Fiumarella, ma quella volta con quel carico sostò sull’uscio della sua stamberga. Si liberò dal peso della cesta per bere un sorso d’acqua; si lasciò andare sul gradino di casa per riprendere fiato; diede uno sguardo ai ragazzi, che riposavano ancora e che, a sera, avrebbero seguito, per le strade della città, le zampogne che suonavano la novena di Natale. Chicchina guardò la cesta colma di frattaglie: “Perché - si domandò - i ricchi mangiano la carne e rifiutano soltanto le parti di ciò che sta dentro le bestie? Forse per il contenuto che le budella ancora custodiscono, e devono essere sepolte nella discarica tra le immondizie…?”



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Testo di Achille Curcio




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