L'altro se stesso



Fischian le palle nella sera ultima.
Vento e ci sono ceneri nel vento,
si disperdono il giorno e la battaglia
deforme, e la vittoria è dei nemici.
Sono i barbari, i gauchos che vincono.
Io, che studiai i canoni e le leggi,
io, Francisco Narciso de Laprida,
la cui voce gridò l’indipendenza
di queste terre crudeli, sconfitto,
di sangue e di sudore brutto il volto,
senza speranza né timore, perso,
per i sobborghi estremi fuggo al Sud.
Come quel capitano in Purgatorio
fuggendo a piedi e insanguinando il piano
fu accecato e abbattuto dalla morte
dove un oscuro fiume perde il nome,
cosí dovrò cadere. Oggi è la fine.
La notte laterale dei pantani
m’insidia e m’imprigiona. Odo gli zoccoli
della mia calda morte che mi cerca
con cavalieri, con musi e con lance.
Io che sognai d’essere un altro, un uomo
di sentenze, di libri, di verdetti,
a ciel sereno giacerò tra il fango;
ma mi delizia il cuore, inesplicabile,
un giubilo segreto. Infine trovo
il mio destino sudamericano.
A questa atroce sera m’ha condotto
il labirinto plurimo dei passi
che i miei giorni tramarono da un giorno
dell’infanzia. Ho scoperto finalmente
la recondita chiave dei miei anni,
la sorte di Francisco de Laprida,
la lettera mancante, la perfetta
forma che seppe Dio fin dal principio.
Nello specchio di questa notte tocco
il mio ignorato volto eterno. Il cerchio
sta per chiudersi. Attendo che ciò avvenga.

Preme il mio piede l’ombra delle lance
protese. Già il ludibrio della morte,
i cavalieri, i criniti cavalli
mi sovrastano... Sento il primo colpo,
il duro ferro che mi squarcia il petto,
il coltello profondo nella gola.

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